Tempo di notte e minorata difesa

notte minorata difesaCon sentenza 40275/2021 depositata in data 8.11.2021 le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione hanno chiarito i principi di applicazione dell’aggravante della minorata difesa per i reati commessi in tempo di notte.

In particolare è stato affermato che:

  • ai fini dell’integrazione della circostanza aggravante della c.d. “minorata difesa”, prevista dall’art. 61, primo comma, n.5, cod. pen., le circostanze di tempo, di luogo o di persona, di cui l’agente ha profittato in modo tale da ostacolare la predetta difesa, devono essere accertate alla stregua di concreti e concludenti elementi di fatto atti a dimostrare la particolare situazione di vulnerabilità – oggetto di profittamento – in cui versava il soggetto passivo, essendo necessaria, ma non sufficiente, l’idoneità astratta delle predette condizioni a favorire la commissione del reato;
  • la commissione del reato “in tempo di notte” può configurare la circostanza aggravante in esame, sempre che sia raggiunta la prova che la pubblica o privata difesa ne siano rimaste in concreto ostacolate e che non ricorrano circostanze ulteriori, di natura diversa, idonee a neutralizzare il predetto effetto.

L’onere della prova della sussistenza in concreto delle ordinarie connotazioni del tempo di notte e dell’assenza di circostanze ulteriori, atte a vanificare l’effetto di ostacolo alla pubblica e privata difesa ricollegabile all’avere agito in tempo di notte, grava naturalmente sul Pubblico Ministero.

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Molestie tramite whatsapp

Molestie tramite whatsappL’art. 660 c.p., in tema di molestie, punisce con la pena dell’arresto fino a 6 mesi o con l’ammenda fino a euro 516 “chiunque in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo“.

L’elemento oggettivo del reato consiste in qualsiasi condotta oggettivamente idonea a molestare e a disturbare terze persone, interferendo nell’altrui vita privata e nell’altrui vita relazionale.

Con “petulanza” si intende un “atteggiamento di arrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nell’altrui sfera di libertà, con la conseguenza che la pluralità di azioni di disturbo integra l’elemento materiale costitutivo del reato e non è, quindi, riconducibile all’ipotesi del reato continuato” (così Cass. Pen. n. 6908/2011).

La recente sentenza 37974/2021 della Sezione I Penale della S.C. prende in esame la questione:

  • se una molestia posta in essere con la messaggistica istantanea (sms o whatsapp) debba considerarsi molestia “col mezzo del telefono”;
  • se l’invasività delle molestie debba essere esclusa dalla facoltà del destinatario di bloccare i messaggi del mittente.

Sotto il primo profilo la S.C. ha dichiarato che il riferimento al “mezzo telefonico” presente nella norma include anche gli sms inviati con telefoni fissi e mobili, nonché altri analoghi mezzi di comunicazione, ivi compresi i nuovi strumenti di messaggistica istantanea.

E’ pertanto evidente che l’invio di messaggi tramite WhatsApp possa integrare il reato di molestie alla pari di una telefonata, in quanto il riferimento normativo a quest’ultima va adattato alle nuove piattaforme di uso quotidiano.

Sotto il secondo profilo, viene invece dichiarato che l’elemento rilevante è prima di tutto “l’invasività in sé del mezzo impiegato per raggiungere il destinatario”, e non la mera “possibilità per quest’ultimo di interrompere l’azione perturbatrice, già subita e avvertita come tale, ovvero di prevenirne la reiterazione, escludendo il contatto o l’utenza sgradita senza nocumento della propria libertà di comunicazione“.

Del resto, il reato di molestie non ha natura necessariamente abituale e non esige una reiterazione delle condotte. Di conseguenza, è sufficiente che vi sia anche una sola interferenza indesiderata che alteri fastidiosamente lo stato psicofisico o le abitudini quotidiane della vittima, non rilevando in alcun modo la presenza dell’opzione “blocca contatto”, la quale non avrebbe la funzione di impedire il reato, bensì di interromperne l’esecuzione che, di fatto, si è già perfezionata con un unico atto molesto.

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Vilipendio delle tombe

vilipendio tombeL’art. 408 c.p. prevede “Chiunque, in cimiteri o in altri luoghi di sepoltura, commette vilipendio di tombe, sepolcri o urne, o di cose destinate al culto dei defunti, ovvero a difesa o ad ornamento dei cimiteri, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”.

Ai fini della configurazione del reato non è necessaria né la violenza, né un movente specifico.

Il vilipendio si configura semplicemente perché si viola il sentimento di pietas che la collettività nutre nei confronti dei defunti e che è la ragione per la quale si adornano le tombe con fiori e simboli religiosi.

Con sentenza 43093/2021, la Suprema Corte di Cassazione sottolinea in particolare che oggetto di tutela è la pietas dei defunti, ossia il sentimento individuale e collettivo che si manifesta con il rispetto non necessariamente religioso, verso i defunti e le cose che sono destinate al loro culto nei cimiteri e nei luoghi di sepoltura.

L’elemento oggettivo del reato consiste pertanto in un’azione, definita “vilipendio” che comprende ogni atto da cui si evince disprezzo delle cose appunto usate per il culto dei morti, come croci immagini, fiori e lampade, così come cose destinate all’ornamento o difesa dei cimiteri. Il delitto quindi è previsto per tutelare il rispetto per il luogo di sepoltura, non solo e non tanto il defunto in sé.

Devono quindi considerarsi atti di vilipendio, i gesti commessi nei confronti delle cose poste nei luoghi di sepoltura, danneggiandole, imprimendovi segni grafici, rimuovendole in tutto o in parte o sostituendole con altre, senza che rilevi la volontà di recare offesa: “rientrano dunque certamente nell’ambito di operatività della fattispecie atti di vilipendio commessi su cose deposte nei luoghi destinati a dimora delle persone decedute ed aventi la funzione di richiamare e ricordare la pietà dei defunti, danneggiandole, lordandole o imprimendovi segni grafici vilipendiosi, o anche rimuovendole in tutto o in parte ed eventualmente sostituendole con altre diverse per significato, origine e rilevanza sociale, anche se la condotta sia avvenuta non per arrecare offesa al defunto, ma alla persona che aveva fatto sistemare la tomba per onorarlo e ricordarlo (Sez. 3 n. 4038, del 29/03/1985, Moraschi, Rv. 168901). In particolare, la condotta penalmente rilevante – che non deve necessariamente essere commessa pubblicamente, o alla presenza dei proprietari delle tombe o dei familiari dei defunti – va sempre valutata con riferimento al bene giuridico tutelato dalla norma quale più sopra individuato, che può ricevere oltraggio ed offesa attraverso gesti o espressioni che, diretti immediatamente contro oggetti cimiteriali, producono mediatamente la lesione del senso di pietà ispirato dal ricordo dell’estinto”.

E non rilevano l’eventuale calma o assenza di violenza della condotta in ragione dell’irrilevanza del movente dell’azione.

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Responsabilità della scuola per l’infortunio dell’alunno

 

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L’istituto scolastico, e quindi il Ministero dell’Istruzione, è tenuto al risarcimento dello studente che si infortuna durante l’ora di educazione motoria qualora non dimostri la presenza di una causa ad esso non imputabile e tale da liberarlo dall’obbligo di risarcire l’alunno.

Infatti, mentre è onere del danneggiato attore dimostrare che l’incidente si è verificato durante la lezione di ginnastica a causa della mancata sorveglianza richiesta all’istituto scolastico, l’istituto scolastico deve invece dimostrare di aver diligentemente sorvegliato in modo da impedire il fatto e che l’evento dannoso è stato determinato da una causa imputabile né alla scuola né all’insegnante, non essendo sufficiente affermare, senza dimostrarlo, che l’incidente sia avvenuto in maniera improvvisa, non prevedibile e non evitabile, imputabile all’intemperanza dell’allievo e alla naturale competizione durante una partita.

Il fatto che genera il danno è l’inadempimento dell’obbligo di vigilare sulla sicurezza dell’alunno nell’intervallo di tempo in cui questo ha fruito della prestazione scolastica, ossia durante la lezione di educazione fisica.

E’ quanto affermato dalla S.C. di Cassazione, Sezione III civile, con ordinanza 35281/2021.

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Indebito utilizzo di carta di credito altrui

carta di credito altrui indebito utilizzoIn tema di indebito utilizzo di carte di credito e di pagamento, la Seconda Sezione penale della Suprema Corte con sentenza 18609/2021 del 12.5.2021 ha affermato che, anche qualora l’uso dello strumento di pagamento da parte di terzi sia stato delegato dal titolare, non opera l’esimente del consenso dell’avente diritto, poiché la disposizione di cui all’art. 493-ter cod. pen. tutela non solo il patrimonio personale di quest’ultimo, ma anche gli interessi pubblici alla sicurezza delle transazioni commerciali e alla fiducia nell’utilizzazione di tali strumenti da parte dei consociati.

Questa interpretazione è suffragata dalla natura della norma che sanziona l’uso indebito di carte di credito e di pagamento, pacificamente diretta alla tutela non solo del patrimonio personale del titolare dello strumento di pagamento o prelievo (Sez. 6, n. 29821 del 24/04/2012, Battigaglia, Rv. 253175), ma anche degli interessi pubblici alla sicurezza delle transazioni commerciali e alla fiducia nell’utilizzazione da parte dei consociati di quegli strumenti («interessi legati segnatamente all’esigenza di prevenire, di fronte ad una sempre più ampia diffusione delle carte di credito e dei documenti similari, il pregiudizio che l’indebita disponibilità dei medesimi e in grado di arrecare alla sicurezza e speditezza del traffico giuridico e, di riflesso, alla “fiducia” che in essi ripone il sistema economico e finanziario»: Corte cost., n. 302 del 19/7/2000); per tale ragione si e affermato che “la norma incriminatrice mira, in positivo, a presidiare il regolare e sicuro svolgimento dell’attività finanziaria attraverso mezzi sostitutivi del contante, ormai largamente penetrati nel tessuto economico“, con la conseguenza che “è giocoforza ritenere che le condotte da essa represse assumano – come del resto riconosciuto anche dalla giurisprudenza di legittimità in sede di analisi dei rapporti tra la fattispecie criminosa in questione ed i reati di truffa e di ricettazione – una dimensione lesiva che comunque trascende il mero patrimonio individuale, per estendersi, in modo più o meno diretto, a valori riconducibili agli ambiti categoriali dell’ordine pubblico o economico, che dir si voglia, e della fede pubblica“.

Ciò ha portato a riconoscere la natura plurioffensiva del reato in esame (Sez. 2, n. 15834 del 08/04/2011, Bonassi, Rv. 250516; Sez. 2, n. 47135 del 25/09/2019, Lucarelli, Rv. 277683).

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