E’ stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto legislativo 75/2020 (“Attuazione della direttiva (UE) 2017/1371, relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale”, la c.d. “direttiva PIF” – direttiva per la protezione interessi finanziari).
Tra le novità introdotte:
a) l’inasprimento delle pene per i reati di peculato, indebita percezione di erogazioni a danno dello stato, induzione indebita a dare o promette utilità, quando dalla commissione degli stessi derivi una lesione degli interessi finanziari dell’Unione europea, nonché estende l’area di punibilità di taluni reati (peculato, concussione, corruzione, induzione indebita a dare o promette utilità, truffa) in relazione ai medesimi interessi finanziari;
b) introduzione della punibilità a titolo di tentativo per i delitti in tema di dichiarazioni tributarie di cui agli artt. 2, 3 e 4 al d.lgs 74/2000 (precedentemente esclusa dall’art. 6) nell’ipotesi di atti compiuti anche nel territorio di un altro Stato membro all’interno dell’Unione Europea e finalizzati all’evasione dell’IVA per un valore non inferiore ai dieci milioni di euro;
c) ripristino delle sanzioni penali per il reato di contrabbando (in precedenza depenalizzato) quando gli importi evasi sono superiori a diecimila euro;
d) estensione dei reati presupposto di cui al d.lgs. n. 231/2001, con l’aggiunta del delitto di frode nelle pubbliche forniture, di frode in agricolture e di contrabbando, alcuni delitti contro la pubblica amministrazione (peculato e abuso d’ufficio ex artt. 314, 316, 323 c.p.) nei casi in cui da essi derivi un danno agli interessi finanziari dell’Unione europea, nonché alcuni reati tributari non compresi nella recente riforma di cui alla legge 157/2019 (delitti di dichiarazione infedele, di omessa dichiarazione e di indebita compensazione, quando rientranti nell’ambito di applicazione della direttiva).
Scarica qui il d.lgs 75/2020 e la relativa relazione illustrativa.
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Legittima difesa putativa e sproporzione del mezzo
Interessante la recente sentenza della Suprema Corte che ha trattato il caso di un imputato, condannato per tentato omicidio per aver sferrato un fendente con un coltello nel costato di chi lo aveva aggredito nell’ambito di una rissa, e ha invocato la causa di giustificazione della legittima difesa.
La S.C. di Cassazione con sentenza 20741 depositata il 13.7.2020 ha considerato:
a) che se è vero che l’esimente della legittima difesa non è applicabile a chi abbia agito nella ragionevole previsione di determinare una risposta aggressiva, la sentenza di condanna non solo non chiariva quale fosse stato l’atteggiamento provocatorio o di sfida tenuto dall’imputato, partecipe, al pari di tutti i corissanti, ad un alterco svoltosi a distanza e consistito in un reciproco scambio di insulti, ma negava espressamente che egli avesse, nel corso di esso, lanciato una sfida agli avversari, estraendo e brandendo il coltello;
b) che una mera discussione, poco importa da chi originata, non è motivo sufficiente a giustificare un’aggressione fisica, né vale a configurare l’innesco di una sfida o la volontaria provocazione di una situazione di pericolo, cui si accompagni non solo la previsione ma addirittura il proposito, secondo quanto apoditticamente si afferma, di fronteggiare l’avversario con un’arma opportunamente tenuta celata;
c) che non appare rispettoso della stessa ricostruzione dei fatti operata in sentenza non tener conto che la condotta reattiva dell’imputato era seguita non già allo scambio di ingiurie, ma a un comportamento della vittima che aveva spostato la contesa verbale sul piano del confronto fisico: era stata la vittima a staccarsi dagli amici e ad avvinarsi, anzi a “scagliarsi” contro l’imputato con “l’intenzione di fargliela pagare”, così mostrando non solo e non tanto la superfluità della – contestuale e peraltro erronea sottolineatura dell’omessa conferma, da parte del teste oculare, delle già riferite modalità dell’aggressione, ma implicitamente ammettendo che un’aggressione fisica vi era stata ad opera della vittima, del quale si rimarcava la superiorità fisica rispetto all’avversario. E l’attualità del pericolo, richiesta per la configurabilità della scriminante, implica un effettivo, preciso contegno del soggetto antagonista prodromico di una determinata offesa ingiusta, la quale si prospetti come concreta e imminente, così da rendere necessaria la reazione difensiva, restando estranea all’area di applicazione della scriminante ogni ipotesi di difesa preventiva o anticipata; ma tale non sarebbe certamente la condotta tenuta dall’imputato che, secondo la ricostruzione offerta, ha estratto il coltello solo quando l’antagonista era passato al contatto fisico.
Dopo aver precisato quanto sopra, la S.C. ha ricordato che, quando vi è il dubbio sulla esistenza di una causa di giustificazione, in presenza di un principio di prova o di una prova incompleta, esso non può che giovare all’imputato (Sez. 1, n. 9708 del 7 luglio 1992, Giacometti, Rv. 191886; Sez. 5, n. 10332 del 5 settembre 1995, Lajacona, Rv. n. 202658; Sez. 1, n. 8983 del 8 luglio 1997, Boiardi, Rv. n. 208473; Sez. 2, n. 32859 del 4 luglio 2007, Pagliaro, Rv. 237758); e lo stesso vale con riferimento alla sussistenza dell’elemento soggettivo, quando emergano circostanze di fatto che giustifichino la ragionevole persuasione di una situazione di pericolo e sorreggano l’erroneo convincimento di versare nella necessità di difesa, poiché tali circostanze, anche se considerate non del tutto certe, portano ugualmente a ritenere sussistente la legittima difesa putativa (Sez. 4, n. 4474 del 15/11/1990, P.M. in proc. Abate, Rv. 187319).
E ogni volta che sia ipotizzabile (anche come conseguenza dell’applicazione del canone in dubio pro reo) la difesa legittima, non basta una oggettiva sproporzione del mezzo usato e delle conseguenze prodotte a fare ritenere comunque sussistente la responsabilità di chi reagisce a titolo di colpa.
L’adeguatezza della reazione va verificata con riferimento alle specifiche e peculiari circostanze concrete che connotano la fattispecie da esaminare, secondo una valutazione di carattere relativo e non astratto, in relazione a tutti gli elementi di fatto – oggettivi e soggettivi – che connotano l’aggressione, sicché quando l’aggredito, fisicamente e psicologicamente più debole, abbia realmente un solo mezzo a disposizione per difendersi e l’aggressione subita non sia altrimenti arrestabile, l’uso di tale strumento, può risultare non eccessivo, se, usato con modalità diverse, poteva ritenersi adeguato.
Scarica qui la sentenza integrale.
Danno da perdita della vita
Con sentenza 13261/2020 la S.C. di Cassazione (scarica qui il testo integrale) ha dichiarato che non è risarcibile nel nostro ordinamento il danno “da perdita della vita” (c.d. danno tanatologico), poiché non è sostenibile che un diritto sorga nello stesso momento in cui si estingua chi dovrebbe esserne titolare.
Pertanto, nel caso di morte immediata o che segua entro brevissimo lasso di tempo alle lesioni, non può essere invocato un diritto al risarcimento del danno iure hereditatis, ma solo un danno iure proprio dei congiunti per perdita del proprio caro.
La S.C. richiama la pronuncia delle Sezioni Unite n. 15350 del 22/07/2015 (scarica qui la sentenza delle SS.UU.) con cui era stato dichiarato che la negazione di un credito risarcitorio della vittima, trasmissibile agli eredi, per la perdita della vita, seguita immediatamente o a brevissima distanza di tempo dalle lesioni subite, è stata ritenuta contrastante con la coscienza sociale alla quale rimorderebbe che la lesione del diritto primario alla vita fosse priva di conseguenze sul piano civilistico (Cass. n. 1361 del 2014), anche perché, secondo un’autorevole dottrina, se la vita è oggetto di un diritto che appartiene al suo titolare, nel momento in cui viene distrutta, viene in considerazione solo come bene meritevole di tutela nell’interesse dell’intera collettività.
Secondo le Sezioni Unite la morte provoca una perdita, di natura patrimoniale e non patrimoniale, ai congiunti che di tal perdita sono risarciti, mentre non si comprenderebbe la ragione per la quale la coscienza sociale sarebbe soddisfatta solo se tale risarcimento, oltre che ai congiunti (per tali intendendo tutti i soggetti che, secondo gli orientamenti giurisprudenziali attuali, abbiano relazioni di tipo familiare giuridicamente rilevanti, con la vittima) per le perdite proprie, fosse corrisposto anche agli eredi (e in ultima analisi allo Stato).
Come è stato osservato (Cass. n. 6754 del 2011), infatti, pretendere che la tutela risarcitoria “sia data “anche” al defunto corrisponde, a ben vedere, solo al contingente obiettivo di far conseguire più denaro ai congiunti”.
Sotto diverso profilo viene sottolineato anche che, oltre che oggetto di un diritto del titolare, insuscettibile di tutela per il venir meno del soggetto nel momento stesso in cui sorgerebbe il credito risarcitorio, la vita è bene meritevole di tutela nell’interesse della intera collettività, ma tale rilievo giustifica e anzi impone, come è ovvio, che sia prevista la sanzione penale, la cui funzione peculiare è appunto quella di soddisfare esigenze punitive e di prevenzione generale della collettività nel suo complesso, senza escludere il diritto ex art. 185, 2° comma c.p. al risarcimento dei danni in favore dei soggetti direttamente lesi dal reato, ma non impone necessariamente anche il riconoscimento della tutela risarcitoria di un interesse che forse sarebbe più appropriato definire generale o pubblico, piuttosto che collettivo, per l’evidente difficoltà, tutt’ora esistente per quanto riguarda la tutela giurisdizionale amministrativa, di individuare e circoscrivere l’ambito della “collettività” legittimate a invocare la tutela.
Covid e esecuzione dei contratti
L’ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte Suprema della Cassazione ha diramato l’interessante relazione tematica n. 56 del 8.7.2020 avente ad oggetto le novità normative sostanziali del diritto “emergenziale” anti-Covid in ambito contrattuale e concorsuale.
Di particolare interesse gli approfondimenti in tema di:
– impossibilità sopravvenuta;
– eccessiva onerosità sopravvenuta;
– Inadempimento della prestazione e impotenza finanziaria;
– norme sostanziali “anti-Covid”;
– norme “emergenziali” per le imprese in crisi;
– esecuzione delle procedure concorsuali minori;
– principio di conservazione del contratto;
– rinegoziazione del contratto squilibrato.
Scarica qui la relazione tematica n. 56.
Padre violento nel paese d’origine: no allo stato di rifugiato
Non sussistono i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria e umanitaria ex art. 7 del decreto legislativo n. 251/2007, nel caso di un cittadino del Gambia che abbia dichiarato:
a) di avere lasciato il proprio paese perché il padre era un alcolista che picchiava lui e la madre;
b) che ha dovuto subire molte violenze psico-fisiche e tra queste il ballo delle scimmie;
c) che era andato via di casa e si era rifugiato a casa di amici e che la madre gli aveva detto che il padre stava organizzando qualcosa di brutto in suo danno;
d) di non avere chiesto aiuto alle autorità perché era inutile.
Il Tribunale ha rigettato il ricorso e ha affermato:
1) che dal narrato emergeva un conflitto privatistico e che non sussisteva una vessazione o repressione violenta;
2) che non sussistevano ipotesi di danno grave e non si ravvisava nel Paese di provenienza la presenza di un conflitto armato interno da cui potesse conseguire violenza indiscriminata tale da comportare una minaccia individualizzata a danno del ricorrente;
3) che non sussistevano, infine, profili di vulnerabilità, né si poteva dire attuato un percorso di integrazione socio-economica riscontrato con la documentazione depositata e, in particolare, che il contratto prodotto aveva una durata assai esigua e comunque era scaduto.
La S.C. di Cassazione con sentenza 14842/2020 del 10.7.2020 ha confermato che non esistono nel caso in cui si discute situazioni di persecuzione intesa quale vessazione o repressione violenta implacabile e che “se è vero che sono da intendersi atti di persecuzione quelli specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia e gli atti di violenza fisica o psichica, è altrettanto vero che, ai fini del riconoscimento della tutela richiesta, sono necessari altri elementi”.
Prosegue la S.C. affermando che al riguardo, è lo stesso legislatore che depone per un’ulteriore e necessaria connotazione, quando afferma che gli atti di persecuzione devono essere sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali e tali da dare origine al fondato timore di persecuzione personale e diretta nel Paese d’origine del richiedente, a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell’appartenenza ad un gruppo sociale ovvero per le opinioni politiche professate (artt. 1, lett. a e 15, paragrafo 2, della CEDU; art. 2, comma 2, lett. e), del decreto legislativo n. 251/2007).
Non secondario il fatto che il ricorrente abbia affermato di non essersi mai rivolto alla polizia o al capo villaggio per chiedere protezione, sicché non era da escludere che le stesse autorità gli avrebbero fornito adeguata tutela.
Scarica qui la sentenza integrale.