Il ristoratore è responsabile nei confronti di un cliente infortunatosi perché la cameriera che sta servendo le pietanze viene urtata da una terza persona, perde l’equilibrio e lascia cadere una pizza bollente sul braccio della danneggiata.
La corte territoriale aveva affermato che:
1) il fatto del terzo integra gli estremi del caso fortuito;
2) il caso fortuito non esclude la colpa dell’autore del danno, se la condotta del terzo sia prevedibile od evitabile;
3) nel caso di specie la “agitazione” dei ragazzi che componevano la comitiva presente nel ristorante era prevedibile, e si sarebbe potuta evitare da parte del ristoratore adottando “le adeguate cautele”.
Tale impostazione è stata confermata dalla S.C. di Cassazione con ordinanza 9997/2020 depositata il 28.5.2020 in cui si legge che chi accede in un ristorante, stipulando per facta concludentia un contratto rientrante nel genus del contratto d’opera, ha diritto di pretendere dal gestore che sia preservata la sua incolumità fisica.
Il contratto di ristorazione, infatti, nella sua struttura socialmente tipica comporta l’obbligo del ristoratore di dare “ricetto ed ospitalità” all’avventore. In mancanza di questo elemento, non di contratto di ristorazione si dovrebbe parlare, ma di compravendita di cibi preparati o da preparare.
Nel contratto di ristorazione pertanto, come in quello d’albergo o di trasporto, il creditore della prestazione affida la propria persona alla controparte: e tanto basta per fare sorgere a carico di quest’ultima l’obbligo di garantire l’incolumità dell’avventore, quale effetto naturale del contratto ex art. 1374 c.c..
Effetto derivante dalla legge, e quindi onnipresente in ogni contratto, è l’obbligo di salvaguardare l’incolumità fisica della controparte, quando la prestazione dovuta sia teoricamente suscettibile di nuocerle.
Tale obbligo discende dall’art. 32 Cost., norma direttamente applicabile anche nei rapporti tra privati, e sussiste necessariamente in tutti i contratti in cui una delle parti affidi la propria (persona all’altra: e dunque non solo nei contratti di spedalità o di trasporto di persone, ma anche in quelli – ad esempio – di albergo, di spettacolo, di appalto (quando l’opus da realizzare avvenga in presenza del committente), di insegnamento d’una pratica sportiva, di ristorazione.
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Mese: Giugno 2020
Concorso tra bancarotta e autoriciclaggio
E’ possibile il concorso tra il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione e quello di autoriciclaggio ex art. 648 ter c.p.
Lo ha stabilito la S.C. di Cassazione Sezione V penale con sentenza n. 1203/2020.
Con l’art. 648 ter c.p.c. è punito chiunque, avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo, impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di tal delitto, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa.
Secondo la Corte la distrazione fallimentare ben può costituire il reato presupposto per la contestazione dell’antiriciclaggio, a nulla rilevando addirittura che l’impiego del bene di provenienza illecita sia avvenuto in epoca antecedente al fallimento e dunque, prima della consumazione del reato di bancarotta.
Infatti, come per i delitti di ricettazione e riciclaggio, anche il delitto di autoriciclaggio deve ritenersi configurabile nell’ipotesi di distrazioni fallimentari compiute prima della dichiarazione di fallimento, in tutti i casi in cui tali distrazioni erano ab origine qualificabili come appropriazione indebita, ai sensi dell’art. 646 c.p., in considerazione del rapporto in cui si trovano il delitto di appropriazione indebita aggravata procedibile d’ufficio) e il delitto di bancarotta patrimoniale, in ragione del quale il secondo assorbe il primo, quando la società, a danno della quale l’agente ha realizzato la condotta appropriativa/distrattiva, venga dichiarata fallita, secondo una evidente progressione criminosa.
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Reati ambientali: delega di funzioni e obbligo di vigilanza del delegante
In una vicenda inerente reati ambientali (deposito temporaneo di rifiuti ai sensi dell’art. 256 co. 2 d.lgs 152/2006) la S.C. di Cassazione Sezione III penale con sentenza 15941/2020 depositata il 27.5.2020 effettua importanti precisazioni sull’efficacia scriminante della delega di funzioni.
In particolare viene affermato che benché la disciplina normativa in tema di gestione dei rifiuti e di obblighi, anche penalmente sanzionati, che gravano sui soggetti produttori e smaltitori non codifichi espressamente l’istituto della delega di funzioni, la Corte, in analogia ai principi affermati con riguardo ai reati commessi con la violazione delle disposizioni in materia di igiene e prevenzione degli infortuni sul lavoro, ne ha da tempo riconosciuto l’efficacia, precisandone anche gli stringenti requisiti di validità. Si è così affermato che, in materia ambientale, per attribuirsi rilevanza penale all’istituto della delega di funzioni, è necessaria la compresenza di precisi requisiti:
a) la delega deve essere puntuale ed espressa, con esclusione in capo al delegante di poteri residuali di tipo discrezionale;
b) il delegato deve essere tecnicamente idoneo e professionalmente qualificato per lo svolgimento del compito affidatogli;
c) il trasferimento delle funzioni delegate deve essere giustificato in base alle dimensioni dell’impresa o, quantomeno, alle esigenze organizzative della stessa;
d) la delega deve riguardare non solo le funzioni ma anche i correlativi poteri decisionali e di spesa;
e) l’esistenza della delega deve essere giudizialmente provata in modo certo (Sez. 3, n. 6420 del 07/11/2007, dep. 2008, Girolimetto, Rv. 238980).
Questi principi – sostanzialmente analoghi a quelli successivamente delineati dal legislatore nell’art. 16 d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, con riguardo alla delega di funzioni da parte del datore di lavoro in ordine all’adozione delle misure di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori – vengono invocati dalla S.C. anche in tema di reati ambientali.
Proprio l’analogia con l’istituto fatto oggetto di espressa codificazione, poi, impone di estendere anche alla delega in materia di attuazione delle disposizioni sulla gestione dei rifiuti l’obbligo di vigilanza del delegante «in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite» (art. 16, comma 3, d.lgs. n. 81 del 2008). Si tratta, invero, di una conseguenza connaturata al sistema di responsabilità delineato dalla legge, in termini non dissimili, in capo a chi professionalmente svolga attività costituenti fonte di rischio per beni primari che formano peraltro oggetto di protezione costituzionale, come l’ambiente in senso lato (art. 9, secondo comma, Cost.), la salute (art. 32 Cost.), l’utilità sociale e la sicurezza (art. 41, secondo comma, Cost.), la tutela del suolo (art. 44 Cost.). La posizione di garanzia attribuita dalla legge ai soggetti titolari d’impresa rispetto alla protezione di tali beni nello svolgimento delle attività economiche, la natura contravvenzionale ed il conseguente titolo d’imputazione anche soltanto colposo dei reati posti a presidio di tali beni non consentono di ritenere che l’imprenditore possa chiamarsi fuori dalle responsabilità nei suoi confronti previste (in materia di igiene e sicurezza sul lavoro, come di gestione dei rifiuti) limitandosi a delegare ad altri l’adempimento degli specifici obblighi di legge, senza vigilare sul corretto espletamento delle funzioni trasferite. Di qui la permanenza della responsabilità penale del delegante che, in caso di commissione di reati colposi da parte del delegato, non abbia ottemperato all’obbligo di vigilanza e controllo (per l’affermazione di tali principi in materia di infortuni sul lavoro, v. Sez. 4, n. 24908 del 29/01/2019, Ferrari, Rv. 276335; Sez. 4, n. 39158 del 18/01/2013, Zugno e aa., Rv. 256878).
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Anche la società estera risponde ex d.lgs 231/2001
La sentenza della S.C. di Cassazione, Sezione VI penale, n. 11626 del 7.4.2020 ha stabilito che anche la società avente sede legale all’estero debba rispondere per responsabilità amministrativa dell’ente ex d.lgs. 231/2001.
Secondo la S.C. qualsiasi ente è soggetto all’obbligo di osservare la legge italiana e, in particolare, quella penale.
E ciò a prescindere (a) dalla sua nazionalità, (b) dal luogo ove esso abbia la propria sede legale e (c) dall’esistenza o meno nel Paese di appartenenza di norme che disciplinino in modo analogo la medesima materia.
Pertanto anche l’ente con sede all’estero, se intende vedere esclusa o attenuata la propria responsabilità amministrativa, deve considerarsi tenuto alla predisposizione e all’efficace attuazione di modelli di organizzazione e di gestione atti ad impedire la commissione di reati.
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La spedizione per posta dell’assegno comporta concorso di colpa del mittente in caso di incasso da parte di soggetto non legittimato
Le Sezioni Unite civili della S.C. di Cassazione con sentenza 9769/2020 depositata il 26.5.2020 hanno stabilito che “la spedizione per posta ordinaria di un assegno, ancorché munito di clausola d’intrasferibilità, costituisce, in caso di sottrazione del titolo e riscossione da parte di un soggetto non legittimato, condotta idonea a giustificare l’affermazione del concorso di colpa del mittente, comportando, in relazione alle modalità di trasmissione e consegna previste dalla disciplina del servizio postale, l’esposizione volontaria del mittente ad un rischio superiore a quello consentito dal rispetto delle regole di comune prudenza e del dovere di agire per preservare gl’interessi degli altri soggetti coinvolti nella vicenda, e configurandosi dunque come un antecedente necessario dell’evento dannoso, concorrente con il comportamento colposo eventualmente tenuto dalla banca nell’identificazione del presentatore”.
Ciò perché, l’utilizzo del servizio di posta ordinaria per la spedizione di un assegno, comporta l’assunzione da parte del mittente di un evidente rischio, consistente nella sottrazione del titolo e nella sua presentazione all’incasso da parte di un soggetto non legittimato, che lo espone all’obbligo di effettuare un nuovo pagamento in favore del beneficiario rimasto insoddisfatto, impedendogli nel contempo di rivalersi nei confronti della banca trattaria o negoziatrice, ove la stessa abbia incolpevolmente provveduto al pagamento dell’assegno. Si tratta di un rischio non solo ingiustificato, avuto riguardo al valore economico dell’oggetto spedito ed alla possibilità di avvalersi di forme di corrispondenza che offrono adeguate garanzie (oltre che di strumenti di pagamento più sicuri), ma idoneo anche ad accrescere la probabilità di pagamenti a soggetti non legittimati, e quindi a comportare un aggravamento della posizione della banca trattaria o negoziatrice, maggiormente esposta alla possibilità di andare incontro a responsabilità, e quindi costretta a munirsi di strumenti tecnici sempre più sofisticati e costosi per l’identificazione dei presentatori ed il contrasto dell’uso di documenti falsificati. In quest’ottica, pertanto, l’utilizzazione della posta ordinaria si pone in contrasto non solo con le regole di comune prudenza, le quali suggerirebbero di avvalersi di modalità di trasmissione più idonee ad assicurare il controllo sul buon esito della spedizione, ma anche con il dovere di agire in modo da preservare gli interessi di tutti i soggetti coinvolti nella vicenda, ove ciò non comporti un apprezzabile sacrificio a proprio carico, e ciò in ossequio al principio solidaristico di cui all’art. 2 Cost., che a livello di legislazione ordinaria trova espressione proprio nella regola di cui all’art. 1227 cod. civ., operante sia in materia extracontrattuale, in virtù nell’espresso richiamo di tale disposizione da parte dell’art. 2056 cod. civ., sia in materia contrattuale, come riflesso dell’obbligo di comportarsi secondo correttezza e buona fede, previsto dall’art. 1175 cod. civ. in riferimento sia alla formazione che all’interpretazione e all’esecuzione del contratto (cfr. Cass., Sez. Un., 21/11/2011, n. 24406; Cass., Sez. III, 26/05/2014, n. 11698; 5/03/2009, n. 5348).
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