Padre violento nel paese d’origine: no allo stato di rifugiato

rifugiato Gambia padre violentoNon sussistono i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria e umanitaria ex art. 7 del decreto legislativo n. 251/2007, nel caso di un cittadino del Gambia che abbia dichiarato:
a) di avere lasciato il proprio paese perché il padre era un alcolista che picchiava lui e la madre;
b) che ha dovuto subire molte violenze psico-fisiche e tra queste il ballo delle scimmie;
c) che era andato via di casa e si era rifugiato a casa di amici e che la madre gli aveva detto che il padre stava organizzando qualcosa di brutto in suo danno;
d) di non avere chiesto aiuto alle autorità perché era inutile.
Il Tribunale ha rigettato il ricorso e ha affermato:
1) che dal narrato emergeva un conflitto privatistico e che non sussisteva una vessazione o repressione violenta;
2) che non sussistevano ipotesi di danno grave e non si ravvisava nel Paese di provenienza la presenza di un conflitto armato interno da cui potesse conseguire violenza indiscriminata tale da comportare una minaccia individualizzata a danno del ricorrente;
3) che non sussistevano, infine, profili di vulnerabilità, né si poteva dire attuato un percorso di integrazione socio-economica riscontrato con la documentazione depositata e, in particolare, che il contratto prodotto aveva una durata assai esigua e comunque era scaduto.
La S.C. di Cassazione con sentenza 14842/2020 del 10.7.2020 ha confermato che non esistono nel caso in cui si discute situazioni di persecuzione intesa quale vessazione o repressione violenta implacabile e che “se è vero che sono da intendersi atti di persecuzione quelli specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia e gli atti di violenza fisica o psichica, è altrettanto vero che, ai fini del riconoscimento della tutela richiesta, sono necessari altri elementi”.
Prosegue la S.C. affermando che al riguardo, è lo stesso legislatore che depone per un’ulteriore e necessaria connotazione, quando afferma che gli atti di persecuzione devono essere sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali e tali da dare origine al fondato timore di persecuzione personale e diretta nel Paese d’origine del richiedente, a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell’appartenenza ad un gruppo sociale ovvero per le opinioni politiche professate (artt. 1, lett. a e 15, paragrafo 2, della CEDU; art. 2, comma 2, lett. e), del decreto legislativo n. 251/2007).
Non secondario il fatto che il ricorrente abbia affermato di non essersi mai rivolto alla polizia o al capo villaggio per chiedere protezione, sicché non era da escludere che le stesse autorità gli avrebbero fornito adeguata tutela.
Scarica qui la sentenza integrale.

Covid-19 e protezione dei dati

Il Garante per la protezione dei dati personali in questo periodo di emergenza epidemiologica ha intensificato l’adozione di provvedimenti, comunicati e audizioni.
E’ innegabile infatti che la problematica del Coronavirus coinvolga particolari categorie di dati (i c.d. dati sensibili) e in particolar modo i dati relativi alla salute.
Accanto alla necessità di tutela di questi dati vi è anche la necessità di protezione dei cittadini.
Spesso questi due diritti incontrano momenti di frizione, con conseguente necessità di contemperare le due esigenze.
Sul sito del Garante sono stati pubblicati, in maniera organizzata:
provvedimenti, comunicati, audizioni, interventi, interviste e altri documenti;
le principali disposizioni adottate in relazione allo stato di emergenza epidemiologica da Covid-19 aventi implicazioni in materia di protezione dei dati personali.
Tra questi anche la lettera del garante al Ministro della Giustizia sul processo penale da remoto.
Le pagine sono in costante aggiornamento.
Clicca sopra per accedere direttamente al sito del garante e visionare il materiale.