L’interesse del beneficiario (criterio del “cui prodest”) non è elemento sufficiente a ritenere quest’ultimo responsabile della formazione di un testamento falso.
Lo ha statuito la S.C. di Cassazione Sezione V penale con sentenza 29877/2020.
In tale pronuncia si legge che le Sezioni Unite Andreotti hanno definito “superata e ormai ripudiata la teoria del cui prodest”, affermando che la generica ed equivoca individuazione di un’area di “interesse” al compimento del delitto (in quel caso un omicidio) costituisce solo ragione di sospetto, supposizione o argomento congetturale, tenuto conto altresì dell’incerta prova circa l’esclusività o la molteplicità dei moventi del delitto (Sez. Unite n. 45276 del 30/10/2003).
In sintesi l’elemento de “l’interesse” può rappresentare un indizio utile ai sensi dell’art. 192, comma 2, cod. proc. pen. ove risponda ai requisiti di certezza, gravità e precisione, ma richiede, poi, la convergenza di ulteriore circostanze che, valutate prima singolarmente e poi globalmente, ne comportino la confluenza in un medesimo contesto dimostrativo (Sez. Unite, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231678).
Nella specie l’elemento de “l’interesse”, come esposto dai giudici di merito, è dotato di certezza, gravità e precisione.
Nel caso di cui si discute, entrambi i testamenti falsi contengono disposizioni favorevoli solo all’imputato che, per effetto di esse, diviene erede unico ed universale acquisendo l’intero asse ereditario ammontante ad un valore di gran lunga superiore ai 15 milioni di euro, avocando a sé anche il cospicuo patrimonio immobiliare che, in base ai testamenti del 2005 e 2009, era stato “disperso” in legati aventi ad oggetto appartamenti in zone di pregio.
Questo dato oggettivo — qualunque sia la formula che si intende impiegare per definirlo — risponde ai requisiti di certezza (alla luce della verifica processuale circa la sua sussistenza), gravità (espressa dalla sua rilevante capacità dimostrativa in ragione della sua immediata pertinenza al thema probandum) e specificità (data la univocità e insuscettibilità di diversa interpretazione altrettanto o più verosimile).
È indubbio che il beneficiario esclusivo dei due atti falsi sia solo e soltanto l’imputato, poiché è l’unico soggetto che, in base al contenuto delle nuove disposizioni, accresce il proprio asse ereditario in pregiudizio dei numerosi legatari, che restano addirittura esclusi dall’ultima disposizione.
Sostenere il contrario significa sovvertire l’ordine della realtà fattuale prima ancora che della logica: non vi è alcun soggetto diverso dall’imputato che sia favorito dalle nuove disposizioni della de cuius; tutti i legatari ne risultano pregiudicati perché estromessi dalla successione.
La individuazione del soggetto “beneficiato” va compiuta, ovviamente, ex ante al momento del confezionamento dell’atto falso, non ex post nella verifica delle conseguenze dannose che la scoperta della falsità ha prodotto a carico del responsabile, poiché, di regola, chi compie un illecito di tale natura confida nel fatto di non essere scoperto, e di assicurarsi i benefici scaturenti dall’atto falso.
Ergo, a dispetto di quanto sostenuto in ricorso, è incontestabile che gli atti falsi, nel loro contenuto, giovino solo all’imputato.
Tuttavia, prosegue la sentenza, l’elemento esaminato, per quanto pregnante, ha valenza indiziaria e, dunque, da solo non è sufficiente a fondare una affermazione di responsabilità dato che, si ripete, l’art. 192, comma 2, cod. proc. pen. postula che gli indizi siano plurimi (almeno due) e concordanti vale a dire che si muovano nella stessa direzione, siano logicamente dello stesso segno, non si pongano in contraddizione tra loro.
Scarica qui la sentenza integrale.