Offese in chat: diffamazione o ingiuria aggravata?

Come noto, l’art. 595 c.p. in tema di diffamazione prevede “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro.

Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro.

Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro.

Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate”.

Che fattispecie integra l’offesa contenuta in una chat di un social network (ad es. Whatsapp) in cui sia compreso anche il soggetto offeso?

Il dilagante utilizzo delle moderne forme di comunicazione come la messaggistica istantanea ha reso i social network e le chat di gruppo uno dei contesti più esposti ai reati contro l’onore.

In un caso recentemente affrontato dalla Cassazione, l’imputato, condannato in entrambi i gradi di giudizio per il reato di diffamazione, ricorreva argomentando che fosse stata ritenuta erroneamente la diffamazione in luogo dell’ingiuria, configurabile in ragione del rapporto diretto che si era instaurato tra le parti all’interno del gruppo Whatsapp e che avrebbe consentito all’offeso di interloquire in via immediata con l’offensore, a scopo difensivo.

Invocava a sostegno della sua tesi una precedente pronuncia della S.C. che, affrontando il caso di una chat vocale sulla piattaforma Google Hangouts affermava “integra il delitto di ingiuria aggravata dalla presenza di più persone, e non il delitto di diffamazione la condotta di chi pronunzi espressioni offensive mediante comunicazioni telematiche dirette alla persona offesa attraverso una video chat, alla presenza di altre persone invitate nella chat, in quanto l’elemento distintivo tra i due delitti è costituito dal fatto che nell’ingiuria la comunicazione, con qualsiasi mezzo realizzata, è diretta all’offeso, mentre nella diffamazione l’offeso resta estraneo alla comunicazione intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l’offensore” (Cass. Pen., Sez. V Pen., n. 10905/2020).

Tuttavia, la Corte sottolineava come nell’ambito di una chat Whatsapp la lettura di un messaggio da parte del destinatario può non essere immediata. Così come è normale che in una chat di gruppo alcuni partecipanti leggano messaggi con molto anticipo rispetto ad altri.

Ciò può accadere per varie motivazioni: il telefono può essere spento, oppure potrebbe non connesso alla rete, ovvero ancora il destinatario potrebbe essere impegnato in altre occupazioni e non visualizzare i messaggi.

Ebbene, in difetto del requisito dell’immediatezza della lettura, la persona offesa è da considerarsi rimasta estranea alla comunicazione intercorsa con più persone non essendo in condizione di interloquire con l’offensore.

Per tali motivi, con sentenza n. 27540/2023, la S.C. di Cassazione, Sezione V Penale, ha affermato che “nel caso di invio di espressioni offensive a una chat di gruppo si configura l’ingiuria quando vi sia contestualità fra comunicazione dell’offesa e recepimento della stessa da parte dell’offeso: in difetto di contestualità, si configura la diffamazione”.

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Tutela del whistleblowing: prime pronunce

Interessante sentenza della Sezione Lavoro del Tribunale di Milano in tema di tutela del lavoratore che abbia segnalato comportamenti illeciti.

Come noto, il recente d.lgs. 24/2023 ha stabilito le misure di tutela dei c.d. “whistleblower”, ossia coloro che denuncino ai prescritti canali interni ovvero alle autorità esterne deputate alla ricezione di tali segnalazioni, illeciti amministrativi, civili e penali, condotte illecite rilevanti ai fini della responsabilità amministrative dell’ente ex d.lgs. 231/2001 e altri illeciti che ledono gli interessi tutelati dalla UE, che vengano commessi nell’ambito della attività d’impresa.

Il decreto citato vieta ogni misura ritorsiva nei confronti del c.d. segnalante o “whistleblower” e all’art. 17 sancisce espressamente che costituiscono (a titolo esemplificativo e non esaustivo) ritorsioni:

  1. il licenziamento, la sospensione o misure equivalenti;
  2. la retrocessione di grado o la mancata promozione;
  3. il mutamento di funzioni, il cambiamento del luogo di lavoro, la riduzione dello stipendio, la modifica dell’orario di lavoro;
  4. la sospensione della formazione o qualsiasi restrizione dell’accesso alla stessa;
  5. le note di merito negative o le referenze negative;
  6. l’adozione di misure disciplinari o di altra sanzione, anche pecuniaria;
  7. la coercizione, l’intimidazione, le molestie o l’ostracismo;
  8. la discriminazione o comunque il trattamento sfavorevole;
  9. la mancata conversione di un contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, laddove il lavoratore avesse una legittima aspettativa a detta conversione;
  10. il mancato rinnovo o la risoluzione anticipata di un contratto di lavoro a termine;
  11. i danni, anche alla reputazione della persona, in particolare sui social media, o i pregiudizi economici o finanziari, comprese la perdita di opportunità economiche e la perdita di redditi;
  12. l’inserimento in elenchi impropri sulla base di un accordo settoriale o industriale formale o informale, che può comportare l’impossibilità per la persona di trovare un’occupazione nel settore o nell’industria in futuro;
  13. la conclusione anticipata o l’annullamento del contratto di fornitura di beni o servizi;
  14. l’annullamento di una licenza o di un permesso;
  15. la richiesta di sottoposizione ad accertamenti psichiatrici o medici.

In questo contesto, il Tribunale di Milano con provvedimento del 20.8.2023 ha sospeso ogni provvedimento disciplinare irrogato da una società a un dipendente che aveva effettuato una serie di segnalazioni, prima informalmente e poi formalmente, ad organi di controllo e di garanzia della società nonché al sindaco di Milano in relazione alla vicenda, poi divenuta di pubblico dominio, dei “biglietti clonati”, vale a dire il sistema creato da alcuni dipendenti infedeli per generare e vendere ” in nero” biglietti e abbonamenti non registrati dai sistemi informatici e, dunque, nemmeno contabilizzati con la correlativa perdita di somme ingentissime da parte della società datrice di lavoro e del Comune di Milano.

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Bonifiche ambientali: la sentenza 160/2023 della Consulta

Con sentenza 160 del 24.7.2023 la Corte Costituzionale (scarica qui il testo integrale) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 della legge della Regione Lombardia 27 dicembre 2006, n. 30, recante «Disposizioni legislative per l’attuazione del documento di programmazione economico-finanziaria regionale, ai sensi dell’articolo 9-ter della legge regionale 31 marzo 1978, n. 34 (Norme sulle procedure della programmazione, sul bilancio e sulla contabilità della Regione) – collegato 2007)».

Tale norma, la cui rubrica reca: «Funzioni amministrative di competenza comunale in materia di bonifica di siti contaminati», così testualmente recita: «1. Sono trasferite ai comuni le funzioni relative alle procedure operative e amministrative inerenti gli interventi di bonifica, di messa in sicurezza e le misure di riparazione e di ripristino ambientale dei siti inquinati che ricadono interamente nell’ambito del territorio di un solo comune, concernenti: a) la convocazione della conferenza di servizi, l’approvazione del piano della caratterizzazione e l’autorizzazione all’esecuzione dello stesso, di cui all’articolo 242, commi 3 e 13, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale); b) la convocazione della conferenza di servizi e l’approvazione del documento di analisi di rischio, di cui all’articolo 242, comma 4, del d.lgs. 152/2006; c) l’approvazione del piano di monitoraggio, di cui all’articolo 242, comma 6, del d.lgs. 152/2006; d) la convocazione della conferenza di servizi, l’approvazione del progetto operativo degli interventi di bonifica o di messa in sicurezza e delle eventuali ulteriori misure di riparazione e di ripristino ambientale, nonché l’autorizzazione all’esecuzione dello stesso, di cui all’articolo 242, commi 7 e 13, del d.lgs. 152/2006; e) l’accettazione della garanzia finanziaria per la corretta esecuzione e il completamento degli interventi autorizzati, di cui all’articolo 242, comma 7, del d.lgs. 152/2006; ) l’approvazione del progetto di bonifica f di aree contaminate di ridotte dimensioni, di cui all’articolo 249 e all’allegato 4 del d.lgs. 152/2006. 2. È altresì trasferita ai comuni l’approvazione della relazione tecnica per la rimodulazione degli obiettivi di bonifica, di cui all’articolo 265, comma 4, del d.lgs. 152/2006. 3. Le disposizioni dei commi 1 e 2 non si applicano agli interventi di bonifica e/o di messa in sicurezza oggetto di strumenti di programmazione negoziata di cui alla legge regionale 14 marzo 2003, n. 2 (Programmazione negoziata regionale). 4. Le procedure di cui ai commi 1 e 2, per le quali, alla data di entrata in vigore della presente legge, la Regione ha già concluso la conferenza di servizi, rimangono di competenza della Regione medesima limitatamente all’adozione del provvedimento conclusivo della singola fase del procedimento».

La Consulta precisa che Regione Lombardia ha, dunque, trasferito ai comuni le funzioni che, a livello statale, l’art. 242 cod. ambiente attribuisce alle regioni, da esercitare attraverso procedure nelle quali i comuni intervengono rilasciando un parere in ordine all’approvazione da parte delle stesse regioni dei progetti di bonifica dei siti inquinati.

Viene inoltre affermato che nel disegno del legislatore statale contenuto nel codice dell’ambiente si riserva alla regione la funzione amministrativa nella materia della bonifica dei siti inquinati (artt. 198 e 242 del d.lgs. n.  152 del 2006), materia per costante, risalente giurisprudenza costituzionale ricompresa in quella dell’ambiente e quindi riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (tra le molte sentenze n. 251 e n. 86 del 2021; in tema di messa in sicurezza, più recentemente, sentenza n. 50 del 2023).

A conferma di ciò viene ricordato inoltre che l’art. 198, comma 4, cod. ambiente attribuisce ai comuni il potere di «esprimere il proprio parere in ordine all’approvazione dei progetti di bonifica dei siti inquinati rilasciata dalle regioni» definendo in chiave ancillare la competenza propria di detti enti, di cui resta escluso ogni concorrente potere di esercizio sulla funzione amministrativa, secondo previsione di legge.

A seguito di tale pronuncia Regione Lombardia ha emesso il Decreto 11357 del 27.7.2023 contenente le prime indicazioni e ricognizione della citata sentenza.

Scarica qui il testo del decreto 11357 citato e la nostra newsletter sul punto.

Linee guida ANAC in tema di whistleblowing

Con l’efficacia dal 15 luglio del decreto legislativo 10 marzo 2023, n. 24 che ha recepito in Italia la Direttiva UE riguardante la protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell’Unione, i cosiddetti whistleblower, entrano in vigore le nuove Linee guida Anac volte a dare indicazioni per la presentazione all’Autorità delle segnalazioni esterne e per la relativa gestione.

Le nuove Linee Guida forniscono indicazioni e princìpi di cui gli enti pubblici e privati possono tener conto per i propri canali e modelli organizzativi interni, su cui Anac si riserva di adottare successivi atti di indirizzo.

Pubblicato anche il nuovo  Regolamento per la gestione delle segnalazioni esterne e per l’esercizio del potere sanzionatorio Anac.

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Clausole abusive: il tramonto del giudicato

Le Sezioni Unite della Cassazione, con la Sentenza n.9479 del 6 aprile 2023 si sono pronunciate in ordine al fatto se un decreto ingiuntivo non opposto e quindi passato in giudicato, basato su clausole abusive ai danni di un consumatore sia ormai definitivamente incontestabile o se soccorrano mezzi di tutela a favore del consumatore.

La vicenda prende le mosse da una questione di normativa europea, oggetto di dibattito dottrinale e giurisprudenziale, in merito al superamento del giudicato implicito nel provvedimento monitorio e delle possibili soluzioni per adattare gli istituti dell’ordinamento interno secondo le indicazioni della Corte di Giustizia Europea.

La Corte Europea con quattro sentenze emesse il 17 maggio 2022 (cause riunite C-693/19 e C-831/19, causa C-725/19, causa C-600/19 e causa C-869/19), in applicazione della disciplina prevista dalla direttiva europea 93/13/CEE a tutela della categoria dei consumatori, ha ritenuto superabile la definitività del decreto ingiuntivo non opposto rispetto al diritto in esso accertato in presenza di clausole abusive ed ha disposto che tutti gli Stati Membri debbano assicurare le misure idonee al fine di garantire la piena tutela riconosciuta dalla direttiva in questione

Tale direttiva sancisce all’art. 6 che “Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché il consumatore non sia privato della protezione assicurata dalla presente direttiva a motivo della scelta della legislazione di un paese terzo come legislazione applicabile al contratto, laddove il contratto presenti un legame stretto con il territorio di uno Stato membro” e all’art. 7 che “Gli Stati membri, nell’interesse dei consumatori e dei concorrenti professionali, provvedono a fornire mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e dei consumatori”.

La giurisprudenza europea, quindi, facendo leva sulla posizione di inferiorità del consumatore, sia dal punto di vista informativo che rispetto al potere negoziale, nei confronti del professionista ha dichiarato contraria ai principi europei la normativa interna che non consente al Giudice dell’Esecuzione di poter rilevare d’ufficio l’eventuale abusività delle clausole del contratto su cui si fonda il diritto di credito accertato nel provvedimento monitorio non opposto.

Questa pronuncia, come è agevole comprendere pone in discussione il principio del giudicato, posto che – secondo la normativa italiana, il decreto ingiuntivo fa stato tra le parti sia sul dedotto (il diritto di credito) sia sul deducibile (il contenuto del contratto).

Ebbene, le Sezioni Unite della Cassazione, con la Sentenza n. 9479 del 6 aprile 2023, hanno deciso che la clausola del contratto resta abusiva anche se il consumatore non si è opposto all’ingiunzione. Spetta quindi al giudice dell’esecuzione controllare se la clausola abbia natura vessatoria.

Nello specifico, le SS.UU. hanno affermato i seguenti principî:

Fase monitoria

Il giudice del monitorio:

a)     deve svolgere, d’ufficio, il controllo sull’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto stipulato tra professionista e consumatore in relazione all’oggetto della controversia;

b)    a tal fine procede in base agli elementi di fatto e di diritto in suo possesso, integrabili, ai sensi dell’art. 640 c.p.c., con il potere istruttorio d’ufficio, da esercitarsi in armonia con la struttura e funzione del procedimento d’ingiunzione:

b1)      potrà, quindi, chiedere al ricorrente di produrre il contratto e di fornire gli eventuali chiarimenti necessari anche in ordine alla qualifica di consumatore del debitore;

b2)      ove l’accertamento si presenti complesso, non potendo egli far ricorso ad un’istruttoria eccedente la funzione e la finalità del procedimento (ad es. disporre c.t.u.), dovrà rigettare l’istanza d’ingiunzione;

c)        all’esito del controllo:

c.1)     se rileva l’abusività della clausola, ne trarrà le conseguenze in ordine al rigetto o all’accoglimento parziale del ricorso;

c.2)     se, invece, il controllo sull’abusività delle clausole incidenti sul credito azionato in via monitoria desse esito negativo, pronuncerà decreto motivato, ai sensi dell’art. 641 c.p.c., anche in relazione alla anzidetta effettuata delibazione;

c.3)     il decreto ingiuntivo conterrà l’avvertimento indicato dall’art. 641 c.p.c., nonché l’espresso avvertimento che in mancanza di opposizione il debitore-consumatore non potrà più far valere l’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto e il decreto non opposto diventerà irrevocabile.

Fase esecutiva

Il giudice dell’esecuzione:

a) in assenza di motivazione del decreto ingiuntivo in riferimento al profilo dell’abusività delle clausole, ha il dovere – da esercitarsi sino al momento della vendita o dell’assegnazione del bene o del credito – di controllare la presenza di eventuali clausole abusive che abbiano effetti sull’esistenza e/o sull’entità del credito oggetto del decreto ingiuntivo;

b) ove tale controllo non sia possibile in base agli elementi di diritto e fatto già in atti, dovrà provvedere, nelle forme proprie del processo esecutivo, ad una sommaria istruttoria funzionale a tal fine;

c) dell’esito di tale controllo sull’eventuale carattere abusivo delle clausole – sia positivo, che negativo – informerà le parti e avviserà il debitore esecutato che entro 40 giorni può proporre opposizione a decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 650 c.p.c. per fare accertare (solo ed esclusivamente) l’eventuale abusività delle clausole, con effetti sull’emesso decreto ingiuntivo;

d) fino alle determinazioni del giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 649 c.p.c., non procederà alla vendita o all’assegnazione del bene o del credito;

(ulteriori evenienze)

e) se il debitore ha proposto opposizione all’esecuzione ex art. 615, primo comma, c.p.c., al fine di far valere l’abusività delle clausole del contratto fonte del credito ingiunto, il giudice adito la riqualificherà in termini di opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c. e rimetterà la decisione al giudice di questa (translatio iudicii);

f) se il debitore ha proposto un’opposizione esecutiva per far valere l’abusività di una clausola, il giudice darà termine di 40 giorni per proporre l’opposizione tardiva – se del caso rilevando l’abusività di altra clausola – e non procederà alla vendita o all’assegnazione del bene o del credito sino alle determinazioni del giudice dell’opposizione tardiva sull’istanza ex art. 649 c.p.c. del debitore consumatore.

Fase di cognizione

Il giudice dell’opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c.:

a) una volta investito dell’opposizione (solo ed esclusivamente sul profilo di abusività delle clausole contrattuali), avrà il potere di sospendere, ex art. 649 c.p.c., l’esecutorietà del decreto ingiuntivo, in tutto o in parte, a seconda degli effetti che l’accertamento sull’abusività delle clausole potrebbe comportare sul titolo giudiziale;

b) procederà, quindi, secondo le forme di rito.

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