Offesa sui social: ingiuria o diffamazione?

Costituisce ingiuria e non diffamazione l’offesa a un partecipante della chat di un social network.

E’ quanto stabilito dalla S.C. di Cassazione Sezione V penale con sentenza n. 36193/2022.

Il tema era già stato oggetto di una recente pronunzia della Corte, che aveva ritenuto l’invio di una “e-mail”, dal contenuto offensivo, ad una pluralità di destinatari integrare il reato di diffamazione anche nell’eventualità che tra questi vi sia l’offeso, stante la non contestualità del recepimento del messaggio nelle caselle di posta elettronica di destinazione. (Sez. 5 , Sentenza n. 13252 del 04/03/2021 Ud. (dep. 08/04/2021 ) Rv. 280814.

Nella motivazione di tale sentenza veniva effettuata un lettura comparativa delle norme ex art 594 c.p. (ingiuria, depenalizzata) e 595 c.p. (diffamazione, penalmente rilevante), puntualizzandosi che l’offesa diretta a una persona presente costituisce sempre ingiuria, anche se sono presenti altre persone; l’offesa diretta a una persona “distante” costituisce ingiuria solo quando la comunicazione offensiva avviene, esclusivamente, tra autore e destinatario; se la comunicazione “a distanza” è indirizzata ad altre persone oltre all’offeso, si configura il reato di diffamazione; l’offesa riguardante un assente e comunicata ad almeno due persone (presenti o distanti), integra sempre la diffamazione.

Il criterio discretivo tra il fatto illecito di ingiuria e la diffamazione sanzionata penalmente ex art 595 c.p. è stato individuato nella presenza o meno dell’offeso tra i destinatari delle comunicazioni offensive.

Si è, infatti, chiarito che è la nozione di «presenza» dell’offeso ad assurgere a criterio distintivo, implicando questa necessariamente la presenza fisica, in unità di tempo e di luogo, di offeso e terzi, ovvero una situazione ad essa sostanzialmente equiparabile, realizzata con l’ausilio dei moderni sistemi tecnologici.

Nell’interpretazione adeguatrice della norma ex art 595 c.p. ai mezzi di comunicazione telematici ed informatici si è chiarito che i numerosi applicativi attualmente in uso per la comunicazione tra persone fisicamente distanti non modificano, nella sostanza, la linea di discrimine tra le due figure come sopra tracciata, dovendo porsi solo una particolare attenzione alle caratteristiche specifiche del programma e alle funzioni utilizzate nel caso concreto, restando fermo il criterio discretivo della “presenza”, anche se “virtuale”, dell’offeso tra i soggetti destinatari ; occorre, dunque, ricostruire sempre l’accaduto, caso per caso.

Così se l’offesa è profferita nel corso di una riunione “a distanza”, o “da remoto”, tra più persone contestualmente collegate, tra le quali anche l’offeso, ricorrerà l’ipotesi della ingiuria commessa alla presenza di più persone, fatto depenalizzato. In tal senso Sez. 5, n. 10905 del 25/02/2020, Sala, Rv. 278742, che ha qualificato come ingiuria l’offesa pronunciata nel corso di un incontro tra più persone, compreso l’offeso, presenti contestualmente, anche se virtualmente, sulla piattaforma Google Hangouts.

Di contro, quando vengano in rilievo comunicazioni scritte o vocali, indirizzate all’offeso e ad altre persone non contestualmente “presenti”, secondo l’accezione estesa alla presenza “virtuale” o “da remoto, ricorreranno i presupposti della diffamazione.

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La clausola “ex works” non espressamente accettata non deroga la giurisdizione

In tema di vendita internazionale a distanza di beni mobili, la controversia avente ad oggetto il pagamento della merce va devoluta, ai sensi dell’art. 4 del Reg. UE n. 1215 del 2012 (applicabile “ratione temporis”), alla giurisdizione dell’A.G. del luogo della consegna materiale dei beni, non ostando a tale conclusione l’inserimento, nel contratto medesimo, di una clausola “ex works”, se essa non sia accompagnata da una specifica pattuizione volta ad attribuire, con chiarezza, al luogo del passaggio del rischio valenza anche di luogo di consegna della merce.

E’ quanto statuito dalle Sezioni Unite Civili della S.C. di Cassazione con ordinanza 20633/2022 che hanno ritenuto non chiara ed univoca la volontà delle parti espressa in una clausola “ex work” finalizzata a disciplinare il passaggio dei rischi e dei costi del trasporto successivo in capo all’acquirente.

Secondo l’univoca giurisprudenza della Corte di Giustizia della UE (evocata anche in ricorso, con riferimento alla sentenza del 25 febbraio 2010, Car Trim, C-381/08 e alla sentenza 9 giugno 2011, Electrosteel Europe SA c. Edil Centro s.p.a., C-87/10), al fine di verificare se il luogo di consegna sia determinato “in base al contratto”, il giudice nazionale adito deve tenere conto di tutti i termini e di tutte le clausole rilevanti del contratto stesso che siano idonei ad identificare con certezza tale luogo, ivi compresi i termini e le clausole generalmente riconosciuti e sanciti dagli usi del commercio internazionale.

E’ quindi necessario verificare se possa essere rinvenibile, dal contenuto complessivo del contratto commerciale intercorso tra le parti, una pattuizione idonea all’univoca individuazione del luogo di consegna, altrimenti operando – in difetto, per l’appunto, di una diversa convenzione – il criterio attributivo della giurisdizione – di cui all’art. 7, punto 1, lett. b), del Reg. UE n. 1215/2012 – in capo al giudice del luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio, conformemente alla previsione del foro generale del convenuto individuata nell’art. 4 dello stesso Regolamento UE.

L’univoco orientamento della giurisprudenza delle Sezioni Unite (v. ord. SU n. 24279/2014; ord. SU n. 32362/2018; sent. SU n. 17566/2019 e, da ultimo, sent. SU n. 15891/2022) aveva ritenuto che il riferimento alla dicitura (c.d. “incoterm”) “ex works” unilateralmente inserita nelle fatture (come è noto costituenti documenti di formazione e provenienza unilaterali) emesse per il pagamento di una fornitura commerciale non può valere, di per sé, come derogativa del criterio di attribuzione giurisdizionale generale, in mancanza di un’espressa e chiara accettazione della clausola e, quindi, della formazione di un univoco accordo contrattuale sul punto, che deve risultare desumibile inequivocamente.

Del resto, l’inserimento della citata clausola “ex work è, invero, finalizzato, di regola, a disciplinare l’aspetto del passaggio dei rischi e dei costi del trasporto successivo in capo all’acquirente ma non ad incidere sulla determinazione dell’attribuzione della giurisdizione.

Se dunque difetti la prova univoca dell’esistenza di un accordo tra le parti circa il luogo di consegna della merce, deve trovare applicazione il criterio generale che individua tale luogo in quello in cui l’acquirente avrebbe conseguito “il potere di disporre effettivamente dei beni alla destinazione finale dell’operazione di vendita” e, quindi, nel luogo di consegna.

Oltretutto, affermano le SS.UU., il criterio del luogo della consegna materiale della merce oggetto del contratto rappresenta il criterio da preferire perché presenta un alto grado di prevedibilità e risponde ad un obiettivo di prossimità, in quanto garantisce l’esistenza di una stretta correlazione tra il contratto e il giudice chiamato a conoscerne, e ciò in quanto, in linea di principio, i beni che costituiscono l’oggetto del contratto devono trovarsi in tale luogo dopo l’esecuzione di tale contratto (a questo inquadramento è, del resto, ispirato anche il paragrafo 15 delle premesse del citato Reg. UE n. 1215/2012); né va trascurato il rilievo per cui l’obiettivo fondamentale di un contratto di compravendita di beni è il trasferimento degli stessi dal venditore all’acquirente, operazione che si conclude soltanto quando detti beni giungono alla loro destinazione finale (così la citata sent. della Corte Giust. 25 febbraio 2010, in causa C-381/08), non potendosi in senso contrario ricorrere all’applicazione, come criterio generale ai fini della individuazione del giudice munito di giurisdizione, del criterio di diritto sostanziale che determina il trasferimento del rischio e\o la liberazione del venditore con la consegna dei beni compravenduti al vettore incaricato, in quanto lo stesso non garantisce in pari modo le esigenze di semplificazione, uniformità e prevedibilità delle decisioni.

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Reati tributari e delega ad operare su conto corrente

La circostanza che un soggetto indagato per reati fiscali abbia delega ad operare su conto corrente di altra persona (ad esempio, l’anziana madre) non è sufficiente a rendere sequestrabili le somme depositate sul conto.

Come noto, in tema di confisca per equivalente, la “disponibilità” del bene, quale presupposto del provvedimento, non coincide con la nozione civilistica di proprietà, ma con quella di possesso, ricomprendendo tutte quelle situazioni nelle quali il bene stesso ricade nella sfera degli interessi economici del reo, ancorché il potere dispositivo su di esso venga esercitato tramite terzi, e si estrinseca in una relazione connotata dall’esercizio dei poteri di fatto corrispondenti al diritto di proprietà (Sez. 3, n. 4887 del 13/12/2018 – dep. 2019, De Nisi, Rv. 274852-01).

La S.C. di Cassazione, sezione III penale, con sentenza 3.8.2022 n. 30619, ha ricordato che “la giurisprudenza ha affermato che la titolarità di una delega ad operare incondizionatamente su un conto corrente bancario intestato ad altri configura l’ipotesi di disponibilità richiesta dal D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 12-bis ai fini dell’ammissibilità del sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente (cfr. Sez. 3, n. 13130 del 19/11/2019, dep. 2020, Cattaneo, Rv. 279377. Secondo tale giurisprudenza, l’esistenza di una delega a operare su un conto corrente bancario, di cui non sono stati indicati né i limiti, né lo scopo, attribuisce senza dubbio al delegato la disponibilità delle somme giacenti su tale conto, posto che egli ha, comunque, la possibilità di apprenderle e disporne, salvi gli obblighi di restituzione e rendiconto nei confronti del titolare del conto (Cfr. anche Sez. 3, n. 23046 del 09/07/2020, Cavinato, Rv. 279821, per cui in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente ai sensi del D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 12-bis, la delega ad operare rilasciata dal titolare di un conto corrente all’indagato, ove non caratterizzata da limitazioni, è sufficiente a dimostrare la disponibilità da parte di quest’ultimo delle somme depositate”.

Pur tuttavia, prosegue la Corte, “Tali principi devono essere senz’altro ribaditi anche in questa sede ma con la precisazione che occorre sempre tenere conto delle specifiche modalità del fatto e che è possibile che il terzo estraneo fornisca la prova contraria. Cfr. in tal senso Sez. 3, n. 240 del 30/10/2017 (dep. 2018), Seamol Immobiliare Srl, in motivazione, che ha affermato che una tale delega, non corredata da limitazioni di sorta, costituisce, ai fini della operatività del sequestro, in capo al delegato una presunzione relativa di disponibilità effettiva che può essere superata da circostanze di segno contrario la cui deduzione spetta all’interessato. Sez. 3, n. 23039 del 2020, 01/07/2020, Sala, non massimata, ha affermato la necessità della verifica in concreto nell’ipotesi in cui il denaro sottoposto a sequestro era della persona giuridica, estranea al reato, mentre indagato era l’amministratore della società della società estranea al reato che aveva la delega ad operare sui conti correnti della società. Sez. 2, n. 29692 del 28/05/2019, Tognola, Rv. 277021-01, con riferimento al sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente ai sensi dell’art. 648-quater c.p., comma 2, ha affermato che la delega ad operare rilasciata dal titolare di un conto corrente all’imputato, anche ove non caratterizzata da limitazioni, non è di per sé sufficiente a dimostrare la piena disponibilità da parte di quest’ultimo delle somme depositate, occorrendo ulteriori elementi di fatto sui quali fondare il giudizio di ragionevole probabilità in ordine alla libera utilizzabilità delle somme da parte del delegato”.

Pertanto, si è osservato che ove la disponibilità dei beni da sottoporre a sequestro sia desunta dalla titolarità di una delega ad operare su conti correnti o altri rapporti bancari, il contenuto della delega è metro imprescindibile per valutare in quale misura l’atto negoziale sia in grado di attribuire la disponibilità – rilevante ai fini della confisca per equivalente – delle somme depositate sui conti correnti, o utilizzabili mediante i rapporti bancari.

La delega non dimostra di per sé l’esistenza del potere di esercitare autonomamente le facoltà del proprietario o del possessore delle somme; il mandato implica un dovere di rendere conto, al titolare delle somme, dell’attività svolta dal delegato. Ove la delega sia caratterizzata da limiti fissati dal delegante, dovrà essere valutato se quei limiti costituiscano già ostacolo nell’ipotizzare che mediante quello strumento negoziale il delegato possa di fatto esercitare i poteri delegante.

Anche ove la delega non sia caratterizzata da limiti, a tale documento devono affiancarsi ulteriori elementi di fatto che possano fondare il giudizio (di ragionevole probabilità, considerata la sede incidentale in cui esso deve essere formulato e la finalità cui è diretto) circa la disponibilità delle somme su cui il delegato possa operare.

La delega a operare su conto corrente intestato a genitore anziano si configura come situazione abbastanza frequente, senza che ciò imponga il possesso delle somme di denaro.

E in conclusione tale delega non può essere ritenuta sufficiente a provare la piena disponibilità delle somme, dovendosi ai fini del sequestro del conto dimostrare in concreto che l’indagato abbia utilizzato i fondi per fini suoi personali o abbia eseguito operazioni estranee alle esigenze di vita del genitore.

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231 e messa alla prova dell’Ente

map e 231Interessante ordinanza adottata dal Tribunale di Bari in data 22.6.2022 che, in tema di responsabilità amministrativa degli enti ai sensi del d.lgs. 231/2001 ha ammesso una società all’istituto della messa alla prova.

Come noto la messa alla prova (MAP) originariamente prevista nel processo minorile è stata estesa anche agli imputati ordinari in forza dell’art. 168bis c.p. che prevede: “Nei procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dal comma 2 dell’articolo 550 del codice di procedura penale, l’imputato può chiedere la sospensione del processo con messa alla prova.

La messa alla prova comporta la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato. Comporta altresì l’affidamento dell’imputato al servizio sociale, per lo svolgimento di un programma che può implicare, tra l’altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali.

La concessione della messa alla prova è inoltre subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità. Il lavoro di pubblica utilità consiste in una prestazione non retribuita, affidata tenendo conto anche delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell’imputato, di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le aziende sanitarie o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, che operano in Italia, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. La prestazione è svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’imputato e la sua durata giornaliera non può superare le otto ore.

La sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato non può essere concessa più di una volta.

La sospensione del procedimento con messa alla prova non si applica nei casi previsti dagli articoli 102, 103, 104, 105 e 108”.

Trattasi di un istituto che consente, tramite l’esecuzione di lavori di pubblica utilità, di ottenere declaratoria di estinzione del reato.

Ora, il Tribunale di Bari, con innovativa ordinanza 22.6.2022 ha dichiarato la MAP applicabile non solo all’imputato persona fisica, ma anche all’ente coinvolto ex d.lgs 231/2001, poiché compatibile con detto sistema normativo, non comportando “alcuna violazione dei principi di tassatività e di riserva di legge, dal momento che il divieto di analogia opera soltanto quanto genera effetti sfavorevoli per l’imputato: la messa alla prova per l’ente determinerebbe, invece, un ampliamento del ventaglio di procedimento speciali a sua disposizione, consentendogli una miglior definizione della strategia processuale”.

Prosegue il Tribunale affermando tra l’altro che non osta nemmeno il fatto “che le previsioni specifiche per i procedimenti speciali nei confronti dell’ente non menzionino la messa alla prova: essa, infatti, può essere interpretata nel senso tanto della volontà del legislatore di disporre l’integrale applicazione della disciplina della messa alla prova, tanto più verosimilmente di una mera svista legislativa”.

Nemmeno sarebbe ostativa la previsione delle condotte riparatorie di cui all’art. 17 d.lgs 231/2001, poiché “la messa alla prova ha un oggetto ben più ampio, contemplando pure l’affidamento al servizio sociale per un programma che può comprendere attività di volontariato di rilievo sociale nonché la prestazione di pubblica utilità”.

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27 luglio 2022, stop al telemarketing: il Registro delle Opposizioni

registro delle opposizioniNegli ultimi anni è cresciuto a dismisura il fenomeno delle telefonate da parte degli operatori di telemarketing.

Spesso voci registrate, ma anche operatori di svariati settori commerciali (energie e telefonia soprattutto).

Il blocco dei numeri non sempre porta risultati concreti sia per la modifica continua dei numeri chiamanti, sia per la ricezione di chiamate da numeri sconosciuti.

Già dal 2010 esiste uno servizio volto ad arginare questi fenomeni: il Registro Pubblico delle Opposizioni o RPO, istituito con DPR 178/2010, col fine di offrire agli utenti la possibilità di opporsi all’utilizzo del proprio numero per fini di marketing.

Con l’art. 1 comma 54 della Legge 124/2017 regolamentata dal DPR n. 149/2018, il Registro è stato inoltre esteso anche alle comunicazioni cartacee.

In sostanza il Registro costituisce una lista di numeri verso i quali gli operatori commerciali non possono effettuare chiamate per finalità commerciali.

Se un numero è registrato nel Registro, un’azienda, o un call center, non potrà usarlo per proporre prodotti o promozioni o servizi.

Qualora lo utilizzasse, commetterebbe una violazione del diritto di opposizione ex art. 21 del Regolamento UE 2016/679 (GDPR), con la conseguente applicazione delle sanzioni di cui all’art. 83 della medesima normativa.

La legge 5/2018, prendendo atto che ormai le telefonate insistenti si sono spostate prevalentemente sui telefoni cellulari, estende l’applicazione del Registro pubblico delle opposizioni a tutti i numeri privati, compresi quelli mobili.

Può essere iscritto al Registro qualsiasi numero, anche se non presente in un elenco pubblico.

Il regolamento attuativo (DPR 26/2022 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 74 del 29 marzo 2022), ha stabilito l’entrata in vigore della nuova normativa nei 120 giorni dalla sua pubblicazione, e dunque al 27 luglio 2022.

Oltre alla possibilità di iscrivere gratuitamente nel registro tutti i numeri di cellulare, le nuove disposizioni prevedono anche l’inclusione in automatico di tutti i numeri fissi che non risultano iscritti nell’elenco telefonico pubblico. L’iscrizione nel registro cancella automaticamente tutti i consensi dati in precedenza, e a partire da quindici giorni dall’iscrizione al registro, le telefonate a fini commerciali a quell’utenza sono considerate illegali.

Il sito del RPO indica tutte le modalità di iscrizione (via web, via mail, via telefono, via fax o tramite lettera raccomandata), in ogni caso sempre gratuita.

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