La natura del sottotetto di un edificio è, in primo luogo, determinata dai titoli e, solo in difetto di questi ultimi, può ritenersi comune, se esso risulti in concreto, per le sue caratteristiche strutturali e funzionali, oggettivamente destinato (anche solo potenzialmente) all’uso comune o all’esercizio di un servizio di interesse comune; il sottotetto può considerarsi, invece, pertinenza dell’appartamento sito all’ultimo piano solo quando assolva alla esclusiva funzione di isolare e proteggere l’appartamento medesimo dal caldo, dal freddo e dall’umidità, tramite la creazione di una camera d’aria e non abbia dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l’utilizzazione come vano autonomo (Sez. 2, n. 17249 del 12/08/2011, Rv. 619027); con l’ulteriore precisazione che per accertare la natura condominiale o pertinenziale del sottotetto di un edificio, in mancanza del titolo, deve farsi riferimento alle sue caratteristiche strutturali e funzionali, sicché, quando il sottotetto sia oggettivamente destinato (anche solo potenzialmente) all’uso comune o all’esercizio di un servizio di interesse comune, può applicarsi la presunzione di comunione ex art. 1117, comma 1, c.c.; viceversa, allorché il sottotetto assolva all’esclusiva funzione di isolare e proteggere dal caldo, dal freddo e dall’umidità l’appartamento dell’ultimo piano, e non abbia dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l’utilizzazione come vano autonomo, va considerato pertinenza di tale appartamento (Sez. 2, n. 6143 del 30/03/2016, Rv. 639396);
E’ quanto ribadito dalla S.C. di Cassazione con ordinanza 9383 del 21/05/2020 (scarica qui il provvedimento integrale)
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La Cassazione sulla sospensione della prescrizione nel periodo emergenziale
In data 17.7.2020 la Cassazione si è pronunciata in tema di legittimità della sospensione Covid-19 ex art. 83 del d.l. 18 marzo 2020.
In particolare con sentenza della sezione III penale, n. 21367/2020 ha affermato i seguenti principi di diritto:
• «è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della sospensione del corso della prescrizione, disposta dall’art. 83, comma 4, del d.l. 18 marzo 2020, in quanto la causa di sospensione è di applicazione generale, proporzionata e di durata temporanea, e la deroga al principio di irretroattività della legge penale sfavorevole, previsto dall’art. 25, comma 2, Cost. risulta giustificata dall’esigenza di tutelare il bene primario della salute, conseguente ad un fenomeno pandemico eccezionale e temporaneo, dovendosi realizzare un ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali, nessuno dei quali è assoluto e inderogabile»;
• «la sospensione della prescrizione prevista dall’art. 83, comma 4, del d.l. 18 marzo 2020 opera dalla data dell’udienza (ricadente nel periodo 9 marzo-11 maggio 2020) di cui è stato disposto il rinvio e fino all’11 maggio 2020, mentre, per i procedimenti la cui udienza era fissata nel periodo 12 maggio-30 giugno 2020 e rinviati a data successiva, la prescrizione rimane sospesa, ai sensi 83, comma 9, del d.l. 18 marzo 2020, dalla data dell’udienza fino al 30 giugno 2020».
Come noto, sul medesimo punto, diversi Tribunali hanno sollevato questione di legittimità costituzionale per violazione del principio di irretroattività della legge penale, avendo le norme in tema di prescrizione natura sostanziale e non processuale.
Sul punto si pronuncerà la Corte Costituzionale.
Scarica qui il testo integrale della sentenza.
Particolare tenuità del fatto anche per i reati senza minimo edittale
La causa di non punibilità della “particolare tenuità del fatto” è applicabile al reato di ricettazione attenuata, previsto dal secondo comma dell’articolo 648 del codice penale, e a tutti i reati ai quali, non essendo previsto un minimo edittale di pena detentiva, si applica il minimo assoluto di 15 giorni di reclusione.
È quanto ha affermato la Corte Costituzionale con la sentenza n. 156 depositata il 21 luglio 2020 (relatore Stefano Petitti), dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’articolo 131-bis del codice penale, laddove non consente l’applicazione dell’esimente ai reati per i quali non è stabilito un minimo edittale di pena detentiva e tuttavia è previsto un massimo superiore a cinque anni. La Corte ha osservato che, con la scelta di consentire l’irrogazione della pena detentiva nella misura minima assoluta (15 giorni di reclusione), il legislatore ha riconosciuto che alcune condotte possano essere della più tenue offensività. Per esse, quindi, è irragionevole escludere a priori l’applicazione dell’esimente.
Scarica qui la sentenza integrale della Consulta e il relativo comunicato stampa.
Obblighi del medico competente in tema di sorveglianza sanitaria
La recente sentenza 19856 depositata il 2.7.2020, della S.C. di Cassazione, Sezione IV penale ricostruisce gli obblighi gravanti in capo al medico competente del lavoro in tema di sorveglianza sanitaria.
I compiti del medico competente si suddividono essenzialmente in tre categorie:
a) i compiti c.d. professionali costituiti essenzialmente dal dovere di effettuare la sorveglianza sanitaria, ovvero l’insieme degli atti medici finalizzati alla tutela dello stato di salute dei lavoratori, in relazione all’ambiente di lavoro, ai fattori di rischio professionale e alle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa.
b) i compiti c.d. collaborativi rappresentati dal dovere di cooperare con il datore di lavoro alla programmazione del controllo dell’esposizione dei lavoratori ai rischi. La partecipazione del medico competente alla fase di valutazione dei rischi aziendali garantisce allo stesso un’approfondita conoscenza dell’organizzazione dei processi lavorativi e gli consente, conseguentemente, di fissare adeguate misure di prevenzione ed efficaci protocolli sanitari; nell’ambito di tale attività occorre un suo coinvolgimento, da parte del datore di lavoro, anche nella redazione del documento di valutazione dei rischi e nella agevole individuazione delle possibili cause di eventuali disturbi riferiti dal lavoratore;
c) i compiti c.d. informativi consistenti: – nel dovere primario di informare i lavoratori sul significato della sorveglianza sanitaria e, nel caso di esposizione ad agenti con effetti a lungo termine, sulla necessità di sottoporsi ad accertamenti sanitari anche dopo la cessazione dell’attività; – nel dovere di fornire, a richiesta, informazioni analoghe ai rappresentanti per la sicurezza dei lavoratori; – nel dovere di esprimere per iscritto, in occasione delle riunioni di cui all’art. 35 (riunioni periodiche, obbligatorie nelle aziende con più di 15 dipendenti aventi ad oggetto il tema della sicurezza), al datore di lavoro, ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, i risultati anonimi collettivi della sorveglianza sanitaria effettuata e fornisce indicazioni sul significato di detti risultati ai fini della attuazione delle misure per la tutela della salute e della integrità psico – fisica dei lavoratori.
Dopo aver ricordato quanto sopra la Corte sottolinea come il presupposto della rimproverabilità soggettiva nei confronti dell’imputato implica la prevedibilità dell’evento che va compiuta ex ante, riportandosi al momento in cui la condotta è stata posta in essere avendo riguardo anche alla potenziale idoneità della stessa a dar vita ad una situazione di danno e riferendosi alla concreta capacità del soggetto di uniformarsi alla regola cautelare, da commisurare al parametro del modello dell’homo eiusdem professionis et condicionis, arricchito dalle eventuali maggiori conoscenze da parte dell’agente concreto (Sez. 4, n. 53455 del 15/11/2018, Rv. 274500).
Inoltre, a fronte di una condotta attiva indiziata di colpa che abbia cagionato un certo evento, occorre, poi, operare il giudizio controfattuale, ovvero chiedersi se, in caso di c.d. comportamento alternativo lecito, l’evento che ne è derivato si sarebbe verificato ugualmente e ne rappresenti la concretizzazione del rischio.
Nelle ipotesi di omicidio o di lesioni colpose in campo medico, il ragionamento contro – fattuale, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, deve essere svolto dal giudice tenendo conto della specifica attività che sia stata specificamente richiesta al sanitario (diagnostica, terapeutica, di vigilanza o di controllo) e che si assume idonea, se realizzata, a scongiurare o ritardare l’evento lesivo, come in concreto verificatosi, con altro grado di credibilità razionale (Sez. 4, n. 30649 del 13/06/2014, Rv. 262239). Sussiste, pertanto, il nesso di causalità tra la condotta omissiva tenuta dal medico e il decesso del paziente allorquando risulti accertato che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente nel senso che l’evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore, rallentando significativamente il decorso della malattia, o con minore intensità lesiva (Sez. 4, n. 18573 del 14/02/2013, Rv. 256338).
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Riforma dell’abuso d’ufficio
L’art. 23 del Decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale), c.d. “decreto semplificazioni“, pubblicato in G.U. n. 178 del 16.7.2020, tra le altre previsioni, modifica l’art. 323 c.p. (abuso d’ufficio).
La norma previgente disponeva “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità”.
L’art 23 citato sostituisce le parole “di norme di legge o di regolamento” con la locuzione “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.
Il nuovo testo recita quindi “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità”.
Si tratta della quarta riformulazione della norma dal 1930 nel tentativo di perseguire maggiore tassatività e determinatezza della fattispecie di reato.
Come è noto, infatti, l’art. 323 c.p. ha da sempre costituito una sorta di chiusura del sistema per punire condotte che non ricadano in altre fattispecie penali.
Secondo la relazione del Presidente del Consiglio l’obiettivo sarebbe quello di tranquillizzare funzionari e amministratori pubblici, chiamati a “darsi da fare” per facilitare la ripresa del paese (“stop alla paura della firma: i funzionari pubblici devono poter sbloccare lavori e spese (es. riforma abuso ufficio)”).
La maggiore specificità della fattispecie dovrebbe derivare:
a) dall’esclusione dei regolamenti tra le norme violate, rilevando unicamente “regole di condotta previste dalla legge o da atti aventi forza di legge”;
b) dal fatto che le regole di condotta siano “specifiche” ed “espressamente previste” dalle norme violate;
c) dalla previsione per cui da tali regole di condotta “non residuino margini di discrezionalità”.