Guida in stato di ebbrezza e casellario

casellario ebbrezzaLa Corte Costituzionale con sentenza 179/2020 ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 24  e dell’art. 25 del T.u. Casellario Giudiziale (DPR 14.11.2020 n. 313), nella parte in cui non prevedono, che nel certificato del casellario giudiziale richiesto dall’interessato non siano riportate le iscrizioni della sentenza di condanna per uno dei reati di cui all’art. 186 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) che sia stato dichiarato estinto in seguito al positivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, nonché dell’ordinanza che dichiara l’estinzione del reato medesimo ai sensi dell’art. 186, comma 9-bis, cod. strada.

In particolare la Consulta, richiamando quanto già affermato nella propria sentenza 231/2018 nella quale aveva censurato l’omessa previsione della non menzione dei provvedimenti relativi alla messa alla prova nei certificati del casellario richiesti da privati, ha osservato che il lavoro di pubblica utilità, disposto quale sanzione sostitutiva per la contravvenzione di cui all’art. 186 cod. strada, alla stessa stregua della messa alla prova, implica lo svolgimento di un’attività in favore della collettività, e pertanto, in caso di esito positivo della stessa, esprime una meritevolezza maggiore rispetto a quella manifestata da chi patteggi la pena o non si opponga all’emissione di un decreto di condanna nei suoi confronti, beneficiando per ciò stesso della non menzione nei certificati del casellario richiesti dai privati.

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Consenso informato e violazione dell’autodeterminazione

consenso informatoIl diritto al risarcimento del danno per omissione del consenso informato può sorgere anche nel caso in cui il paziente non possa dimostrare la responsabilità del medico in relazione a un eventuale pregiudizio alla salute subito in conseguenza dell’intervento.
Ciò perché anche la lesione del diritto alla autodeterminazione può costituire responsabilità medica.
Pur tuttavia, come afferma la S.C. di Cassazione con sentenza 17322/2020 del 19.8.2020 infatti, nell’ipotesi dell’omessa informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un pregiudizio alla salute ma senza che sia stata dimostrata la responsabilità del medico, è risarcibile il diritto violato all’autodeterminazione a condizione che il paziente alleghi e provi che, una volta in possesso dell’informazione, avrebbe prestato il rifiuto all’intervento (e, nel caso di specie, si sarebbe rivolto ad altra struttura).
Il rifiuto del consenso alla pratica terapeutica rileva, come aveva già affermato anche Cass. n. 28985 del 2019, sul piano della causalità giuridica ex art. 1223 c.c. e cioè della relazione tra evento lesivo del diritto alla autodeterminazione – perfezionatosi con la condotta omissiva violativa dell’obbligo informativo preventivo – e conseguenze pregiudizievoli che da quello derivano secondo un nesso di regolarità causale.
Laddove il paziente non provi (o addirittura nemmeno deduca) che non si sarebbe sottoposto all’intervento e che si sarebbe rivolto ad altra struttura, si versa nel caso di una mera eventualità di un intervento presso altra struttura.
Tale eventualità non è idonea ad integrare il requisito richiesto del rifiuto che si sarebbe frapposto all’intervento una volta in possesso dell’informazione omessa, rifiuto che è onere del paziente non solo allegare, ma anche provare (con ogni mezzo, come afferma la giurisprudenza, e dunque anche il notorio, le massime di esperienza e le presunzioni).
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La preponderanza dell’evidenza

più probabile che nonCon ordinanza del 6 luglio 2020, n. 13872 la S.C. di Cassazione, sezione III civile precisa in modo dettagliato i criteri di ripartizione dell’onere probatorio in tema di responsabilità medica.
In particolare descrive la regula iuris della “preponderanza dell’evidenza” e la suddivide in due criteri:
1. quello del “più probabile che non”, in base alla quale il giudice deve scegliere l’ipotesi che, sulla base delle prove allegate, è dotata di un “grado di conferma logica superiore all’altra”;
2. quello della “prevalenza relativa”, secondo cui il giudice deve scegliere come “vero” l’enunciato che ha ricevuto il grado relativamente maggiore di conferma sulla base delle prove disponibili.
Sulla base di tali principi la S.C. giunge ad affermare nel caso trattato che il Giudice deve “verificare, sulla scorta delle evidenze probatorie acquisite (anche a mezzo della disposta di consulenza tecnica d’ufficio), innanzitutto, se l’ipotesi sulla verità dell’enunciato relativo all’idoneità della toracentesi a cagionare l’emotorace presentasse un grado di conferma logica maggiore rispetto a quella della sua falsità (criterio del “più probabile che non”). Di seguito, essa avrebbe dovuto stabilire – in applicazione, questa volta, del criterio della “prevalenza relativa della probabilità” se tale ipotesi avesse ricevuto, sempre su un piano logico, ovvero nuovamente sulla base delle prove disponibili, un grado relativamente maggiore di conferma rispetto ad altrettante, differenti, ipotesi sulla eziologia tanto dell’emotorace, quanto del decesso della paziente (facendo la sentenza riferimento a non meglio precisate sue “critiche condizioni di salute” che avrebbero influito sul cd. “exitus”), ipotesi anch’esse, però, da riscontrare preliminarmente, nella loro verità, nello stesso modo, ovvero in applicazione del principio del più probabile che non”.
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Omesso versamento delle ritenute

Omesso versamento delle ritenuteLa Corte di Cassazione, sezione III penale, con sentenza n. 20089 del 7.7.2020 ha dichiarato che il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti (art. 2 D.L. n. 463 del 1983, conv. in I. n. 638 del 1983) è reato a dolo generico.
Pertanto risulta integrato dalla consapevole scelta di omettere i versamenti dovuti e non rileva, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, la circostanza che il datore di lavoro attraversi una fase di criticità e destini risorse finanziarie per far fronte a debiti ritenuti più urgenti o abbia deciso di dare preferenza al pagamento degli emolumenti ai dipendenti (Sez.3, n.38269 del 25/09/2007, Rv.237827; Sez.3, n.13100 del 19/01/2011, Rv.249917; Sez.3, n.3705 del 19/12/2013, dep.28/01/2014, Rv. 258056; Sez.3, n.43811 del 10/04/2017, Rv.271189).
La S.C. dunque rimette in discussione molte decisioni di merito adottate negli ultimi anni che avevano dato rilievo alla situazione economico finanziaria del datore di lavoro in ottica di esclusione del dolo, ovvero sotto forma di causa di giustificazione ex art. 54 c.p. (stato di necessità).
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Confini della legittima difesa domiciliare

legittima difesa domiciliareLa scriminante della c.d. difesa domiciliare è stata interessata dapprima dall’intervento della L. 13 febbraio 2006, n. 59 – giustificando le reazioni difensive poste in essere contro chi commetta fatti di violazione di domicilio ai sensi dell’art. 614, primo e secondo comma, cod. pen., situazione a cui è stata parificata la commissione di fatti avvenuti «all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale».
In seguito, come noto, la legge n. 36 del 2019, con l’intenzione professa di rendere sempre e indistintamente legittima la difesa all’intrusione nel proprio domicilio:
1) ha modificato il secondo comma dell’art. 52 cod. pen., inserendovi l’avverbio “sempre” («Nei casi previsti dall’art. 614 primo e secondo comma, sussiste sempre il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la propria o altrui incolumità; b) i beni propri o altrui quando non vi è desistenza o vi è pericolo di aggressione.»);
2) ha inserito nella norma un nuovo comma – il quarto – in forza del quale «Nei casi di cui al secondo e al terzo comma agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere, con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone»;
3) ha aggiunto, all’art. 55 cod. pen., un secondo comma che, delimitando l’ambito di punibilità dell’eccesso colposo, recita «Nei casi di cui ai commi secondo, terzo e quarto dell’art. 52, la punibilità è esclusa se chi ha commesso il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità ha agito nelle condizioni di cui all’art. 61, primo comma, numero 5 ovvero in stato di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto».
La S.C. di Cassazione, Sezione I penale, con sentenza n. 21794/2020 del 21.7.2020 precisa che la nuova riforma, anzitutto non ha sostituito quella del 2006 perché, al pari della prima, riguarda esclusivamente le reazioni difensive all’offesa ingiusta arrecata all’interno del domicilio e dei luoghi ad esso assimilati: dunque, pur sempre di difesa “nel domicilio” si tratta e non, di difesa “del domicilio” tout court.
Precisa inoltre la Corte che l’inserimento dell’avverbio “sempre”, volto a presidiare ulteriormente, nell’intenzione del legislatore, la presunzione di proporzionalità della reazione difensiva a tutela della sicurezza individuale nel domicilio, non modifica l’impianto normativo dell’istituto.
La fattispecie scriminante postula una serie di requisiti aggiuntivi rispetto a quelli, diversi dalla proporzione, richiesti dall’art. 52, primo comma, cod. pen.:
• la commissione di una violazione di domicilio da parte dell’aggressore;
• la presenza legittima dell’agente nei luoghi dell’illecita intrusione o dell’illecito intrattenimento;
• uno specifico animus defendendi che si aggiunge e non si sostituisce ai requisiti posti dal primo comma, nel senso che alla finalità difensiva deve necessariamente corrispondere, sul piano oggettivo, il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, non altrimenti neutralizzabile se non con la condotta difensiva effettivamente attuata, la necessità ed inevitabilità dell’offesa restando ineludibili precondizioni.
Sicché l’aggiunta dell’avverbio “sempre” appare pleonastica, in quanto l’operatività della presunzione, già posta dalla norma, resta comunque subordinata all’accertamento degli altri elementi costitutivi della fattispecie scriminante, che non consente una indiscriminata reazione nei confronti dell’autore dell’illecita intrusione o dell’illecito intrattenimento, ma presuppone un attacco, nell’ambiente domestico o nei luoghi ad esso assimilati, alla propria o altrui incolumità o quanto meno un pericolo di aggressione (Sez. 1, n. 12466 del 21/02/2007, Sampino, Rv. 236217; Sez. 4, n. 691 del 14/11/2013, Gallo Cantone, Rv. 257884; Sez. 5, n. 35709 del 02/07/2014, Desogus, 13/08/2014, Rv. 260316 Sez. 1, n. 50909 del 07/10/2014, Thekna, Rv. 261491). La reazione può dirsi, pertanto, proporzionata, nonostante l’asimmetria dei mezzi a disposizione, sempre che il pericolo di offesa all’incolumità propria o di terzi sia attuale e tale da rendere inevitabile l’uso dell’arma come mezzo di difesa, mentre la reazione a difesa dei beni è legittima quando l’offesa è in atto (non vi è desistenza) e vi sia il pericolo, ossia la probabilità ovvero la rilevante possibilità, di aggressione all’incolumità fisica dell’aggredito o di altri.
Sulla base di tali presupposti la Corte ha dichiarato inapplicabile la scriminante in esame ad un caso in cui colui che si era introdotto nell’abitazione era stato attinto da arma da fuoco da tergo, mentre, flesso in avanti, tentava la fuga infilandosi nello stretto pertugio della saracinesca.
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