Da ragion fattasi a estorsione

estorsione e ragion fattasiNel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta ed arbitraria, ma ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria: occorre, in particolare, che l’autore agisca nella ragionevole opinione della legittimità della sua pretesa, ovvero ad autotutela di un suo diritto suscettibile di costituire oggetto di una contestazione giudiziale, anche se detto diritto non sia realmente esistente, e tale pretesa deve, inoltre, corrispondere perfettamente all’oggetto della tutela apprestata in concreto dall’ordinamento giuridico, e non mirare ad ottenere un qualsiasi quid pluris, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione, operata dall’agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato; nel delitto di estorsione, al contrario, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella consapevolezza della sua ingiustizia.

Integra invece gli estremi dell’estorsione, la condotta consistente in minacce o violenza all’indirizzo di prossimi congiunti del debitore, senz’altro estranei al rapporto obbligatorio inter partes asseritamente azionato dall’agente, la cui pretesa di rivalersi in danno di terzi non sarebbe giudizialmente coltivabile.

Sulla base di tali assunti la S.C. di Cassazione. Sezione II penale, con sentenza 24617/2020 ha stabilito che “integra il reato di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario con violenza o minaccia alle persone, la condotta di chi reclami la soddisfazione di un presunto diritto ponendo in essere condotte violente o minacciose in danno (anche) di soggetti terzi, estranei al rapporto obbligatorio dal quale scaturisce, nella prospettiva dell’agente, il diritto vantato”.

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Le Sezioni Unite in tema di illecita concorrenza tramite violenza o minaccia

Cassazione illecita concorrenzaLe Sezioni Unite Penali sono state chiamate a pronunciarsi sulla seguente questione di diritto: “se, ai fini della configurabilità del reato di illecita concorrenza con minaccia o violenza, sia necessario il compimento di condotte illecite tipicamente concorrenziali o, invece, sia sufficiente anche il solo compimento di atti di violenza o minaccia comunque idonei a contrastare od ostacolare l’altrui libertà di concorrenza”.
Con sentenza 13178 depositata il 28.4.2020 le Sezioni Unite hanno enunciato il seguente principio di diritto: “ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 513-bis cod. pen. è necessario il compimento di atti di concorrenza che, posti in essere nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, siano connotati da violenza o minaccia e idonei a contrastare od ostacolare la libertà di autodeterminazione dell’impresa concorrente”.
Ciò perché le illecite forme di esercizio della concorrenza incriminate dalla richiamata disposizione minacciano di rimuovere le precondizioni necessarie all’esplicarsi della stessa libertà di funzionamento del mercato, incidendo al contempo sulla libertà delle persone di autodeterminarsi nello svolgimento delle attività produttive.
E’ dunque il libero svolgimento delle iniziative economiche ad essere tutelato, attraverso la sanzione di comportamenti costrittivi o induttivi che possono orientarsi anche sulla libertà di iniziativa delle persone, non più solo sulle cose, come nella condotta contemplata dalla contigua previsione dell’art. 513 cod. pen., che di contro richiede, in alternativa all’uso della violenza, il ricorso a mezzi fraudolenti con il fine di cagionare, in entrambi i casi, l’impedimento o il turbamento dell’esercizio di un’attività industriale o commerciale.
L’idoneità a recare un pregiudizio all’impresa concorrente, contrastandone od ostacolandone la libertà di autodeterminazione, connota la fattispecie dell’art. 513-bis nella sua materialità, poiché costituisce un elemento oggettivo della condotta, a sua volta accompagnata dalla coscienza e volontà di compiere un atto di concorrenza inficiato dal ricorso ai mezzi della violenza o della minaccia, ossia di determinare una situazione di concorrenzialità illecita che rischia obiettivamente di alterare o compromettere l’ordine giuridico del mercato.
Sotto altro profilo, è stato affermato anche che il delitto di illecita concorrenza con violenza o minaccia non può essere assorbito nel delitto di estorsione, trattandosi di norme con diversa collocazione sistematica e preordinate alla tutela di beni giuridici diversi, sicché, ove ricorrano gli elementi costitutivi di entrambi i delitti, si ha il concorso formale degli stessi.
Ciò perché gli elementi che concorrono a descrivere la tipicità del reato di illecita concorrenza impediscono di ritenerne assorbita la condotta nella più grave fattispecie della estorsione (consumata o tentata) in base al criterio di specialità. I due reati, rientranti in una diversa collocazione sistematica, offendono beni giuridici diversi, incidendo nel secondo caso sul patrimonio del soggetto passivo (Sez. 6, n. 6055 del 24/06/2014, dep. 2015, Amato, cit.), con la previsione dell’elemento di fattispecie relativo all’ottenimento di un ingiusto profitto con altrui danno, senza tradursi in una violenta manipolazione dei meccanismi di funzionamento dell’attività economica concorrente (Sez. 2, n. 53139 del 08/11/2016, Cotardo, Rv. 268640).
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