Sul rifiuto del dipendente di accettare la nomina al trattamento dei dati personali

Può il dipendente rifiutarsi di sottoscrivere per accettazione la nomina a incaricato al trattamento dei dati personali sottopostagli dal datore di lavoro?

Il Regolamento (UE) 2016/679 (GDPR) ha introdotto la figura del Responsabile del Trattamento dei dati personali.

L’art. 28 GDPR prevede che “Qualora un trattamento debba essere effettuato per conto del titolare del trattamento, quest’ultimo ricorre unicamente a responsabili del trattamento che presentino garanzie sufficienti per mettere in atto misure tecniche e organizzative adeguate in modo tale che il trattamento soddisfi i requisiti del presente regolamento e garantisca la tutela dei diritti dell’interessato” e che “I trattamenti da parte di un responsabile del trattamento sono disciplinati da un contratto o da altro atto giuridico a norma del diritto dell’Unione o degli Stati membri, che vincoli il responsabile del trattamento al titolare del trattamento e che stipuli la materia disciplinata e la durata del trattamento, la natura e la finalità del trattamento, il tipo di dati personali e le categorie di interessati, gli obblighi e i diritti del titolare del trattamento”.

All’art. 29 è poi previsto che “Il responsabile del trattamento, o chiunque agisca sotto la sua autorità o sotto quella del titolare del trattamento, che abbia accesso a dati personali non può trattare tali dati se non è istruito in tal senso dal titolare del trattamento, salvo che lo richieda il diritto dell’Unione o degli Stati membri”.

L’interessante ordinanza 504/2024 del Tribunale di Udine, Sezione Lavoro, afferma che “Le prestazioni rese dalla ricorrente (così come da chiunque operi in un ufficio postale) implicano necessariamente il trattamento in senso tecnico di dati personali altrui”.

Conseguentemente “Se dunque è vero che la nomina quale persona designata al trattamento dei dati personali ha natura unilaterale essendo un atto che promana dalla parte datoriale, è tuttavia altrettanto vero che ogni nomina/designazione per lo svolgimento di determinate mansioni/incarichi implica una accettazione da parte del destinatario di quell’atto (senza la quale la nomina non può produrre i propri effetti), che in base ai principi generali dell’ordinamento deve rivestire la stessa forma dell’atto presupposto. La mancata accettazione da parte del lavoratore dell’incarico conferitogli dal datore porta a conseguenze nella gestione del rapporto di lavoro che si producono su diversi piani: violazione del generale dovere di lealtà e correttezza nell’esecuzione del rapporto, inadempimento dei doveri contrattuali, integrazione di condotta disciplinarmente rilevante. Il rifiuto espressamente opposto dalla (omissis) di sottoscrivere la lettera di incarico e gli specifici impegni ivi indicati implica inevitabilmente il rifiuto di trattare tali dati rispettando la disciplina di legge e le indicazioni datoriali, nonché di formarsi adeguatamente e di aggiornarsi sul punto”.

Ricorda inoltre il Tribunale che l’art. 24 GDPR impone al Titolare del trattamento, di adottare “tenuto conto … dei rischi” connessi al trattamento dei dati personali “misure tecniche e organizzative adeguate per garantire, ed essere in grado di dimostrare, che il trattamento è effettuato conformemente al presente regolamento”: in altre parole, in ragione delle generali esigenze di garanzia e tutela dei diritti dei cittadini sottese a tale impianto normativo, l’ordinamento impone alla società di organizzarsi in modo da assicurare il legittimo trattamento dei dati e di essere in grado di provare in qualsiasi momento (“dimostrare”) di aver adottato tali misure organizzative.

Nondimeno, gli artt. 29 e 32 co.4° del Reg. UE n. 2016/679 impongono al Titolare di formare adeguatamente ed aggiornare i propri designati al trattamento, stabilendo che il titolare del trattamento e il responsabile del trattamento fanno sì che chiunque agisca sotto la loro autorità e abbia accesso a dati personali non tratti tali dati se non è istruito in tal senso dal titolare del trattamento.

In forza di ciò, dunque, il datore di lavoro:

  • deve garantire che i dati delle persone fisiche trattati dai propri incaricati/designati avvenga nel rispetto degli obblighi di legge;
  • allo scopo deve formare adeguatamente i propri designati al trattamento e tenere aggiornata tale formazione;
  • risponde direttamente e a ogni effetto verso le persone fisiche i cui dati personali siano stati trattati illegittimamente dai propri incaricati;
  • deve adottare misure organizzative che le consentano altresì di “dimostrare” che questi ultimi trattino i dati personali altrui in modo legittimo.

Il Datore di lavoro si è insomma trovato, per un fatto determinato dalla volontà del proprio dipendente e comunque fuori dalla propria sfera di controllo, nelle condizioni di dover necessariamente sospendere dal servizio il lavoratore, posto che in caso contrario il datore di lavoro avrebbe senz’altro violato le norme di garanzia e di tutela sopra esaminate, esponendosi altresì inevitabilmente al rischio di incorrere in responsabilità sia di natura civilistica verso i soggetti interessati da eventuali trattamenti illegittimi (cfr. art. 82 GDPR) sia di natura amministrativa (cfr. artt. 83 e 84 GDPR).

A fronte di ciò, il datore di lavoro legittimamente può sospendere il dipendente, in attesa che vengano ripristinate le condizioni minime che consentano di operare nel rispetto della sopra richiamata disciplina di legge nazionale e comunitaria in tema di protezione e tutela dei dati personali.

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Violazioni in tema di sicurezza sul lavoro e 231

Come noto, per poter addebitare a un Ente una violazione ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. 231/2001 è necessario che i reati siano commessi “nel suo interesse o a suo vantaggio”.

Tali criteri d’imputazione oggettiva della responsabilità dell’ente sono alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il primo esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo; il secondo ha, invece, una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito (Sez. Unite, n. 38343 del 2014, Espenhahn, Rv. 261113).

Molto spesso, per alcuni tipi di reato (ad. es. i reati colposi e in particolar modo le lesioni personali colpose e l’omicidio colposo conseguenti a violazioni in tema di sicurezza sul lavoro) è poco comprensibile, per i non addetti ai lavori, che un’azienda sia avvantaggiata da eventi di questo genere.

La giurisprudenza ha elaborato un criterio di compatibilità, affermando in via interpretativa che i criteri di imputazione oggettiva (interesse e vantaggio) vanno riferiti alla condotta del soggetto agente e non all’evento, coerentemente alla diversa conformazione dell’illecito, essendo possibile che l’agente violi consapevolmente la cautela, o addirittura preveda l’evento che ne può derivare, pur senza volerlo, per rispondere a istanze funzionali a strategie dell’ente. A maggior ragione, vi è perfetta compatibilità tra inosservanza della prescrizione cautelare e esito vantaggioso per l’ente (in motivazione, Sez. Unite n. 38343 del 2014, cit.).

Si salvaguarda in tal modo il principio di colpevolezza, con la previsione della sanzione del soggetto meta-individuale che si è giovato della violazione.

Parimenti, la Suprema Corte ha svariate volte avuto occasione di calibrare in concreto i concetti di interesse e vantaggio in questo tipo di reati, affermando che essi possono essere ravvisati:

  • nel risparmio di risorse economiche conseguente alla mancata predisposizione dei procedimenti e dei presidi di sicurezza;
  • nell’incremento economico conseguente all’incremento della produttività non ostacolata dal rispetto della normativa prevenzionale (sez. 4 n. 31210 del 2016, Merlino; n. 43656 del 2019, Compagnia Progetti e Costruzioni);
  • nel risparmio sui costi di consulenza, sugli interventi strumentali, sulle attività di formazione e informazione del personale (in motivazione, sez. 4 n. 18073 del 2015, Bartoloni);
  • o, ancora, nella velocizzazione degli interventi di manutenzione e di risparmio sul materiale.

Esso, quindi, va inteso non solo come risparmio di spesa conseguente alla mancata predisposizione del presidio di sicurezza, ma anche come incremento economico dovuto all’aumento della produttività non rallentata dal rispetto della norma cautelare (sez. 4 n. 31003 del 23/6/2015, Cioffi e n. 53285 del 10/10/2017, Pietrelli, in motivazione). In altri termini vanno individuati precisi canali che colleghino teleologicamente l’azione dell’uno (persona fisica) all’interesse dell’altro.

E anche una sola violazione in tema di sicurezza può essere sufficiente a far applicare la responsabilità ex d.lgs 231/2001, poiché, afferma la Cassazione Penale, Sez. 4, con sentenza 04 luglio 2024, n. 26293la sistematicità della violazione non rileva quale elemento della fattispecie tipica dell’illecito dell’ente l’art. 25-septies cit. non richiede la natura sistematica delle violazioni alla normativa antinfortunistica per la configurabilità della responsabilità dell’ente derivante dai reati colposi ivi contemplati (sez. 4, n. 29584 del 22/9/2020, F.Ili Cambria Spa, Rv. 279660-01; n. 12149 del 24/3/2021, Rodenghi, Rv. 280777-01)”.

Ricorda la S.C. che l’interesse dell’ente ricorre quando la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha consapevolmente agito allo scopo di far conseguire un’utilità alla persona giuridica; ciò accade, per esempio, quando la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche risulti essere l’esito, non di una semplice sottovalutazione dei rischi o di una cattiva considerazione delle misure di prevenzione necessarie, ma di una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi d’impresa pur non volendo (quale opzione dolosa) il verificarsi dell’infortunio in danno del lavoratore, l’autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di soddisfare un interesse dell’ente (ad esempio, far ottenere alla società un risparmio sui costi in materia di prevenzione)” (in motivazione, sez. 4 n. 31210 del 19/5/2016, Merlino).

Ne deriva, quindi, che l’interesse dell’Ente può sussistere anche in relazione a una trasgressione isolata, allorché altre evidenze fattuali dimostrino tale collegamento finalistico, così neutralizzando il valore probatorio astrattamente riconoscibile al connotato della sistematicità (in motivazione, sez. 4, n.29584/2020 cit.).

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Il querelante non compare in udienza: remissione tacita di querela?

Il nuovo art. 152 c.p., nella sua formulazione a seguito della modifica introdotta dal d.lgs. 150/2022 (c.d. riforma Cartabia), stabilisce, tra l’altro, che “Nei reati punibili a querela della persona offesa, la remissione estingue il reato.

La remissione è processuale o extraprocessuale. La remissione extraprocessuale è espressa o tacita. Vi è remissione tacita, quando il querelante ha compiuto fatti incompatibili con la volontà di persistere nella querela.

Vi è altresì remissione tacita:

  • quando il querelante, senza giustificato motivo, non compare all’udienza alla quale è stato citato in qualità di testimone;
  • quando il querelante ha partecipato a un programma di giustizia riparativa concluso con un esito riparativo; nondimeno, quando l’esito riparativo comporta l’assunzione da parte dell’imputato di impegni comportamentali, la querela si intende rimessa solo quando gli impegni sono stati rispettati”.

In ragione di tale nuova norma, la seconda sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 31832/2024, ha chiarito che integra remissione tacita di querela la mancata comparizione alla udienza dibattimentale del querelante, previamente ed espressamente avvertito dal giudice.

Ovviamente il presupposto della remissione tacita deve risiedere nella preventiva rituale citazione e della mancata comparizione in assenza di giustificato motivo.

Infatti, afferma la citata sentenza, “secondo la consolidata interpretazione di questa Corte, recepita dal legislatore della novella, integra remissione tacita di querela la mancata comparizione alla udienza dibattimentale del querelante, previamente ed espressamente avvertito dal giudice che l’eventuale sua assenza sarà interpretata come fatto incompatibile con la volontà di persistere nella querela” (cfr. Cass. Sez. Unite, n. 31668 del 23.6.2016).

Eguale conseguenza non può automaticamente desumersi dalla mancata costituzione di parte civile del querelante, posto che “la dichiarazione del querelante di non costituirsi parte civile non rappresenta di per sé indice della mancanza di volontà di querelare, in quanto la querela riguarda la volontà di perseguire penalmente un soggetto, mentre la costituzione di parte civile attiene all’esercizio dell’azione civile avente a oggetto la pretesa risarcitoria” (cfr. Cass. Sez. V penale, n. 16412 del 21.2.2024).

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Il contratto di mutuo condizionato può essere titolo esecutivo?

mutuo condizionato titolo esecutivoCon sentenza n. 12007 del 3.05.2024, la Sezione III della Corte di Cassazione ha stabilito che non può considerarsi un valido titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, ai sensi dell’art. 474 c.p.c., il contratto di mutuo con il quale si stabilisce che la somma finanziata venga trattenuta dalla banca in un deposito infruttifero sino al verificarsi di una determinata condizione.

Così decidendo, la Corte di legittimità, in accoglimento del secondo motivo di impugnazione, ha cassato la sentenza della Corte d’Appello di Milano che aveva riconosciuto la validità del mutuo a valere quale titolo esecutivo, sulla base del fatto che l’intera somma finanziata fosse stata, in realtà, contestualmente erogata dalla Banca alla parte mutuataria.

Secondo la Cassazione, tuttavia, la questione di diritto deve riguardare non tanto la sussistenza, la validità e il corretto perfezionamento del contratto di mutuo (ritenute, peraltro, pacifiche), quanto la sussistenza o meno di una obbligazione attuale di pagamento di una somma di danaro a carico della parte mutuataria e in favore della banca mutuante, così come richiesto dall’art. 474 c.p.c.

In ogni caso concreto deve, pertanto, essere verificato se l’eventuale obbligazione della parte mutuataria fosse o meno attuale al momento della sottoscrizione del contratto ovvero se la stessa sarebbe sorta solo al verificarsi di determinate condizioni, successive alla sottoscrizione.

Nel contratto di mutuo oggetto della decisione della Corte la somma finanziata veniva restituita alla banca e trasferita in un conto corrente deposito infruttifero.

Deve considerarsi, in primo luogo, che il deposito bancario ha natura di deposito irregolare e, ai sensi dell’art. 1834 c.c., fa acquistare la proprietà della somma al depositario, con l’obbligo, da parte di quest’ultimo, di restituirla al depositante nella stessa specie monetaria (cd. “svincolo”); “dunque, lo “svincolo” della somma concessa in mutuo ma immediatamente depositata presso la banca mutuante e, quindi, rientrata nel patrimonio della stessa, richiedeva un successivo atto volontario di quest’ultima, che determinasse il nuovo trasferimento della sua proprietà in favore della parte mutuataria, affinché sorgesse l’obbligazione di restituzione di essa a carico di quest’ultima”.

Ne consegue, dunque, che la somma depositata in un conto corrente infruttifero non si trova più nella disponibilità della mutuataria, ma esclusivamente nella disponibilità giuridica della banca.

Secondo la Corte di Cassazione, pertanto, la Corte d’Appello avrebbe dovuto verificare se, al momento dello svincolo della somma depositata, di questa poteva disporne unicamente la banca o se, invece, fosse stato redatto un ulteriore atto pubblico o una scrittura privata autenticata che attestasse l’effettivo svincolo della somma mutuata in favore della società mutuataria, dotato anch’esso della necessaria forma richiesta dall’art. 474 c.p.c.

La Corte, definitivamente pronunciando, ha, dunque, enunciato il seguente principio di diritto: “nel caso in cui venga stipulato un complesso accordo negoziale in cui una banca concede una somma a mutuo e la eroghi effettivamente al mutuatario (anche mediante semplice accredito, senza consegna materiale del danaro), ma, al tempo stesso, si convenga altresì che tale somma sia immediatamente ed integralmente restituita dal mutuatario alla mutuante (e se ne dia atto nel contratto), con l’ intesa che essa sarà svincolata in favore del mutuatario stesso solo al verificarsi di determinate condizioni, benché debba riconoscersi come regolarmente perfezionato un contratto reale di mutuo, deve però escludersi, ai sensi dell’art. 474 c.p.c., che dal complessivo accordo negoziale stipulato tra le parti risulti una obbligazione attuale, in capo al mutuatario, di restituzione della somma stessa (che è già rientrata nel patrimonio della mutuante), in quanto tale obbligazione sorge – per volontà delle parti stesse – solo nel momento in cui la somma in questione sia successivamente svincolata in suo favore ed entri nuovamente nel suo patrimonio; di conseguenza, deve altresì escludersi che un siffatto contratto costituisca, da solo, titolo esecutivo, essendo necessario un ulteriore atto, necessariamente consacrato nelle forme richieste dall’art. 474 c.p.c. (atto pubblico o scrittura privata autenticata) che attesti l’effettivo svincolo della somma già mutuata (e ritrasferita alla mutuante) in favore della parte mutuataria, solo in seguito a quest’ultimo risorgendo, in capo a questa, l’obbligazione di restituzione di quella somma”.

Ne consegue, dunque, che per valere quale titolo esecutivo, l’atto notarile nel quale si dispone che la somma finanziata rientri nella disponibilità giuridica della banca, deve essere integrato da una quietanza, avente le caratteristiche richieste dall’art. 474 c.p.c., che attesti l’avvenuto svincolo delle somme depositate sul conto infruttifero vincolato.

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Contributo a cura di Michela Presutti, Studio Arclex, avvocato in Milano.

L’influencer: inquadramento giuridico

A quale figura lavorativa o professionale è riconducibile un influencer?

Una recente interessante sentenza del Tribunale di Roma (sezione IV, 4.3.2024 n. 2615) lo assimila all’agente di commercio ex art. 1742 c.c. (norma che afferma “Col contratto di agenzia una parte assume stabilmente l’incarico di promuovere, per conto dell’altra, verso retribuzione, la conclusione di contratti in una zona determinata”).

Per giungere a questa conclusione il Tribunale ha invocato la ricorrenza degli elementi della stabilità e continuità dell’attività promozionale, elementi evidenziati dalla natura del contratto a tempo indeterminato e dal pagamento regolare delle provvigioni.

Tali elementi fanno sostanzialmente dedurre la stabilità dell’obbligo dell’influencer di attivarsi per orientare le scelte di consumo dei propri followers, risultando irrilevante che l’influencer non sia destinatario di direttive ed istruzioni, atteso che il mercato in questione, nel mondo web, è altamente standardizzato, l’acquisto si effettua con un “click” e le condizioni di vendita sono fissate una volta per tutte. Tale attività non poteva dunque dirsi lasciata alla libera iniziativa personale dell’influencer e non poteva pertanto essere ricondotta alla figura del procacciatore d’affari.

Il fatto che i contratti in questione non prevedessero una zona, intesa come area geografica, è stato invece ritenuto irrilevante. In particolare, la promozione digitale all’interno di una specifica community di followers è stata ritenuta quale elemento assimilabile a una zona determinata, determinata proprio dalla community dei followers.

Nemmeno veniva ritenuta rilevante l’assenza di relazioni dirette tra l’influencer e i propri followers, in considerazione delle caratteristiche del web quale mercato altamente standardizzato.

In sostanza l’introduzione di nuove tecniche di vendita ha rivoluzionato l’interazione tra cliente e prodotto, che sempre più spesso avviene in modi non convenzionali. In questo contesto, il c.d. marketing influencer viene definito come “un esperto di settore che, con i propri post, permette di offrire maggiore visibilità a prodotti o servizi da lui promossi, avvalendosi dei canali web che ritiene più opportuni ed adeguati (Instagram, Youtube, Facebook, un blog personale, etc.)”.

Gli influencer rappresentano dunque un nuovo “strumento” per la promozione dei prodotti, assimilabile all’agente di commercio. D’altra parte, nei contratti di agenzia l’attività dell’agente consiste in atti di vario contenuto, non definiti, che “non richiedono necessariamente la ricerca del cliente […] purché sussista nesso di causalità tra l’opera promozionale svolta dall’agente nei confronti del cliente e la conclusione dell’affare cui si riferisce la provvigione” (v. anche Cass. 2/8/2018, n. 20453).

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