L’art. 595 comma 3 cod. pen., in tema di diffamazione, prevede che “Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro cinquecentosedici”.
Dal canto suo l’art. 13 della Legge 47/1948 dispone a sua volta che, “nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, si applica la pena della reclusione da uno a sei anni e quella della multa non inferiore a euro duecentocinquanta”.
I Tribunali di Salerno e Bari, con proprie ordinanze, hanno sollevato questione di costituzionalità su tale sistema sanzionatorio, nella parte in cui si prevede la pena detentiva a carico del giornalista responsabile del reato di diffamazione a mezzo stampa, censurando le norme per sospetta violazione degli articoli 3, 21, 25, 27, 117 Cost. in relazione all’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Nella Camera di Consiglio del 9.6.2020 la Consulta, rinviando di un anno la decisione ha invocato un intervento normativo sul punto da parte del Legislatore, diramando il seguente comunicato “La Corte costituzionale ha esaminato oggi le questioni sollevate dai Tribunali di Salerno e di Bari sulla legittimità costituzionale della pena detentiva prevista in caso di diffamazione a mezzo stampa, con riferimento, in particolare, all’articolo 21 della Costituzione e all’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In attesa del deposito dell’ordinanza, previsto nelle prossime settimane, l’Ufficio stampa della Corte fa sapere quanto segue. La Corte ha rilevato che la soluzione delle questioni richiede una complessa operazione di bilanciamento tra la libertà di manifestazione del pensiero e la tutela della reputazione della persona, diritti entrambi di importanza centrale nell’ordinamento costituzionale. Una rimodulazione di questo bilanciamento, ormai urgente alla luce delle indicazioni della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, spetta in primo luogo al legislatore. Poiché sono attualmente pendenti in Parlamento vari progetti di legge in materia, la Corte, nel rispetto della leale collaborazione istituzionale, ha deciso di rinviare la trattazione delle questioni all’udienza pubblica del 22 giugno 2021, per consentire alle Camere di intervenire con una nuova disciplina della materia. In attesa della futura decisione della Corte, restano sospesi i procedimenti penali nell’ambito dei quali sono state sollevate le questioni di legittimità discusse oggi”.
Scarica qui il testo del comunicato della Corte.
Mese: Giugno 2020
Mobbing e Inail
Secondo la Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, ordinanza 14 maggio 2020, n. 8948, l’Inail è obbligato a indennizzare una malattia causata dalla condotta vessatoria del datore di lavoro (c.d. mobbing).
E’ stato dichiarato infatti che la tutela assicurativa Inail si applica ad ogni forma di tecnopatia di natura fisica o psichica, che sia conseguenza dell’attività lavorativa svolta.
Invero secondo il risalente e costante orientamento giurisprudenziale della S.C.
in materia di assicurazione sociale, rileva non soltanto il rischio specifico proprio della lavorazione, ma anche il c.d. rischio specifico improprio; ossia non strettamente insito nell’atto materiale della prestazione ma collegato con la prestazione stessa: come questa Corte ha affermato in svariate occasioni (per le attività prodromiche, per le attività di prevenzione, per gli atti di locomozione interna, le pause fisiologiche, le attività sindacali) ai sensi dell’art. 1 TU in materia di infortuni sul lavoro (cfr., tra le tante, Cass. 13882/16, Cass. 7313/2016, Cass. 27829/2009; Cass. 10317/2006, Cass. 16417/2005, Cass. 7633/2004, Cass. 3765/2004, Cass. 131/1990; Cass. 12652/1998, Cass. 10298/2000, Cass. 3363/2001, Cass. 9556/2001, Cass. 1944/2002, Cass. 6894/2002, Cass. 5841/2002, Cass. 5354/2002).
Lo stesso orientamento è stato riaffermato a proposito delle malattie professionali, nella sentenza n. 3227/2011, con la quale la protezione assicurativa è stata estesa alla malattia riconducibile all’esposizione al fumo passivo di sigaretta subita dal lavoratore nei luoghi di lavoro, ritenuta meritevole di tutela ancorchè, certamente, non in quanto dipendente dalla prestazione pericolosa in sè e per sè considerata (come “rischio assicurato”), ma soltanto in quanto connessa al fatto oggettivo dell’esecuzione di un lavoro all’interno di un determinato ambiente.
L’evoluzione in discorso si riallaccia pure a quella registrata a livello normativo nell’ambito dell’infortunio in itinere e del rischio ambientale.
Nell’ambito del sistema del Testo Unico, sono quindi indennizzabili tutte le malattie di natura fisica o psichica la cui origine sia riconducibile al rischio del lavoro, sia che riguardi la lavorazione, sia che riguardi l’organizzazione del lavoro e le modalità della sua esplicazione; dovendosi ritenere incongrua una qualsiasi distinzione in tal senso, posto che il lavoro coinvolge la persona in tutte le sue dimensioni, sottoponendola a rischi rilevanti sia per la sfera fisica che psichica (come peraltro prevede oggi a fini preventivi del T.U. n. 81 del 2008, art. 28, comma 1).
Pertanto, ed in conclusione, ogni forma di tecnopatia che possa ritenersi conseguenza di attività lavorativa risulta assicurata all’INAIL, anche se non è compresa tra le malattie tabellate o tra i rischi tabellati, dovendo in tale caso il lavoratore dimostrare soltanto il nesso di causa tra la lavorazione patogena e la malattia.
Scarica qui il testo integrale dell’ordinanza.
Espropriazione di pubblica utilità e deprezzamento dell’area residua
Con sentenza 10747 depositata il 5.6.2020 la I Sezione Civile della S.C. di Cassazione ha enunciato il seguente principio di diritto: in tema di espropriazione per pubblica utilità, nel caso in cui, per effetto della realizzazione o dell’ampliamento di una strada pubblica (nella specie, di una autostrada), il privato debba subire nella sua proprietà la creazione o l’avanzamento della relativa fascia di rispetto, quest’ultima si traduce in un vincolo assoluto di inedificabilità che di per sé non è indennizzabile, ma che, in applicazione estensiva della disciplina in tema di espropriazione parziale, non esclude il diritto del proprietario di essere indennizzato per il deprezzamento dell’area residua mediante il computo delle singole perdite ad essa inerenti, quando risultino alterate le possibilità di utilizzazione della stessa ed anche per la perdita della capacità edificatoria realizzabile sulle più ridotte superfici rimaste.
Ad imporre questa soluzione è la disciplina dell’espropriazione parziale che postula che l’indennizzo riconosciuto al proprietario dall’art. 33 del d.P.R. n. 327 del 2001 non riguardi soltanto la porzione espropriata (quando questa vi sia), ma anche la compromissione o l’alterazione delle possibilità di utilizzazione della restante porzione del bene rimasta nella disponibilità del proprietario, in tutti i casi in cui il distacco di una parte del fondo e l’esecuzione dell’opera pubblica influiscano negativamente sulla parte residua (Cass. n. 20241 del 2017).
Nella specie, l’indennizzo eventualmente spettante al proprietario per la perdita di valore dell’area residua deve essere calcolato in relazione alla più limitata capacità edificatoria consentita sulla più ridotta superficie rimasta a seguito della creazione o dell’avanzamento della fascia di rispetto (in tal senso è anche Cass. n. 7195 del 2013), ma senza automatismi come quello del trasferimento di cubatura da un’area all’altra.
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Un termine ad adempiere inferiore a 15 giorni non abilita alla risoluzione del contratto
In tema di diffida ad adempiere, un termine inferiore ai quindici giorni trova fondamento solo in presenza delle condizioni di cui all’art. 1454 c.c., comma 2; in conseguenza, in presenza dell’assegnazione del termine inferiore, risultano irrilevanti: i precedenti solleciti rivolti al debitore per l’adempimento, in quanto tale circostanza non attiene alla natura del contratto, ma ad un comportamento omissivo del debitore; la mancata contestazione del termine da parte del debitore, sempre che, in base a un accertamento rimesso al giudice del merito, tale mancata contestazione non assuma significato ai fini della conclusione, in forma tacita, dell’accordo in deroga; la mancata indicazione del diverso termine, reputato congruo, da parte del debitore, che presuppone un onere non contemplato dalla norma; il protrarsi dell’inadempienza del debitore oltre il termine assegnato, giacché la diffida illegittimamente intimata per un termine inferiore ai quindici giorni è di per sé inidonea alla produzione di effetti estintivi nei riguardi del rapporto costituito tra le parti.
E’ il principio di diritto sancito dalla sentenza della I Sezione Civile della S.C. di Cassazione n. 8943 del 14.5.2020.
Motiva infatti la Corte che l’art. 1454 c.c., prevede, al comma 2, che il termine assegnato con la diffida ad adempiere non possa essere inferiore a quindici giorni, “salvo diversa pattuizione delle parti o salvo che, per la natura del contratto o secondo gli usi, risulti congruo un termine minore”. Al di fuori di queste ipotesi, la fissazione di un termine inferiore determina l’inidoneità della diffida alla produzione di effetti estintivi nei riguardi del rapporto costituito tra le parti (Cass. 30 gennaio 1985, n. 542; nel senso che l’assegnazione del termine inferiore produca tale risultato, cfr. pure Cass. 5 aprile 1982, n. 2089).
L’assegnazione di un termine siffatto è dunque ammessa ove ricorra una specifica pattuizione derogatoria e nei casi in cui essa risulti congrua avendo riguardo alla natura del contratto e agli usi. Questa S.C. ha poi precisato che l’accertamento della congruità del termine costituisce un accertamento di fatto (Cass. 3 settembre 2019, n. 22002; Cass. 6 novembre 2012, n. 19105; Cass. L. settembre 1990, n. 9085), che è incensurabile in sede di legittimità se esente da errori logici e giuridici (Cass. 6 novembre 2012, n. 19105 cit.; Cass. 1 settembre 1990, n. 9085 cit.).
La riduzione del termine di quindici giorni deve essere giustificata dalla presenza di una delle tre condizioni previste dall’art. 1454, comma 2, cit.: in assenza di esse, non ha senso dibattere della congruità del termine. Infatti, il giudizio di congruità, in base alla norma codicistica, non entra in gioco con riferimento all’eventualità della pattuizione di un termine ridotto rispetto a quello legale, mentre in tanto può rilevare, con riferimento alle altre due ipotesi, in quanto la restrizione del detto termine trovi ragione nella natura del contratto o negli usi.
Anche in caso di reiterazione di atti di diffida ad adempiere, il termine previsto dall’art. 1454 c.c., decorre dall’ultimo di essi, sicché lo spatium agendi di quindici giorni, che necessariamente deve intercorrere tra il ricevimento della diffida e l’insorgenza della fattispecie risolutoria, deve essere rispettato a far data dall’ultima diffida: Cass. 3 marzo 2016, n. 4205; Cass. 6 luglio 2011, n. 14877).
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Sequestrabile il fondo pensione
La Terza Sezione Penale della S.C. di Cassazione con sentenza 13660/2020 del 6.5.2020 ha affermato la possibilità di sequestro finalizzato a confisca delle somme di denaro versate in un fondo pensione nella fase di accumulo della provvista, non essendo applicabili, nella specie, i limiti di pignorabilità stabiliti dall’art. 545 c.p.c.
Secondo la Corte infatti, vuoi con riferimento alla primigenia fase di accumulo della provvista monetaria, vuoi con riferimento alla successiva fase di erogazione della periodica prestazione pecuniaria, gli strumenti finanziari riconducibili alla categoria dei fondi pensione costituiscono una categoria assimilabile alle assicurazioni sulla vita e deve pertanto concludersi che le somme di denaro in essi confluite siano soggette alla ordinaria disciplina penalistica in materia di sequestro preventivo dei crediti finalizzato alla successiva confisca.
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