Da ragion fattasi a estorsione

estorsione e ragion fattasiNel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta ed arbitraria, ma ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria: occorre, in particolare, che l’autore agisca nella ragionevole opinione della legittimità della sua pretesa, ovvero ad autotutela di un suo diritto suscettibile di costituire oggetto di una contestazione giudiziale, anche se detto diritto non sia realmente esistente, e tale pretesa deve, inoltre, corrispondere perfettamente all’oggetto della tutela apprestata in concreto dall’ordinamento giuridico, e non mirare ad ottenere un qualsiasi quid pluris, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione, operata dall’agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato; nel delitto di estorsione, al contrario, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella consapevolezza della sua ingiustizia.

Integra invece gli estremi dell’estorsione, la condotta consistente in minacce o violenza all’indirizzo di prossimi congiunti del debitore, senz’altro estranei al rapporto obbligatorio inter partes asseritamente azionato dall’agente, la cui pretesa di rivalersi in danno di terzi non sarebbe giudizialmente coltivabile.

Sulla base di tali assunti la S.C. di Cassazione. Sezione II penale, con sentenza 24617/2020 ha stabilito che “integra il reato di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario con violenza o minaccia alle persone, la condotta di chi reclami la soddisfazione di un presunto diritto ponendo in essere condotte violente o minacciose in danno (anche) di soggetti terzi, estranei al rapporto obbligatorio dal quale scaturisce, nella prospettiva dell’agente, il diritto vantato”.

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Sulle infezioni contratte in sala operatoria

sala operatoria sterilizzazioneNel caso di infezione in ambiente ospedaliero spetta alla struttura dimostrare l’avvenuta sterilizzazione della sala operatoria.

La Corte di Cassazione, Sezione III Civile, con ordinanza 17696/2020 ha infatti affermato che “a seguito del ricovero del paziente per l’esecuzione dell’intervento chirurgico alla rotula, gravava sulla struttura sanitaria la relativa responsabilità contrattuale, che esige l’adempimento di una serie di obbligazioni. Tra queste, pacificamente esiste anche l’obbligazione di garantire l’assoluta sterilità non soltanto dell’attrezzatura chirurgica ma anche dell’intero ambiente operatorio nel quale l’intervento ha luogo; tanto che questa Corte ha affermato, proprio in un caso di infezione batterica contratta in ambiente operatorio, che il debitore (cioè la struttura sanitaria) risponde anche dell’opera dei terzi della cui collaborazione si avvale, ai sensi dell’art. 1228 cod. civ., dato che la sterilizzazione della sala operatoria e dei ferri chirurgici è compito che non spetta direttamente al chirurgo operatore (sentenza 14 giugno 2007, n. 13953). Ora, che lo stafilococco aureo sia un batterio di frequente (anche se non esclusiva) origine nosocomiale è nozione che questa Corte può dare come pacifica; ed è altrettanto noto che proprio per questa sua frequente origine, lo stafilococco aureo è un batterio particolarmente resistente agli antibiotici, ivi compresi quelli affini alla penicillina. Ciò comporta la necessità, da parte della struttura sanitaria, di una particolare attenzione alla sterilità di tutto l’ambiente operatorio, proprio perché l’insorgenza di un’infezione del genere non può considerarsi un fatto né eccezionale né difficilmente prevedibile. E l’onere della prova di avere approntato in concreto tutto quanto necessario per la perfetta igiene della sala operatoria è, ovviamente, a carico della struttura”.

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Fondo vittime: non occorre denuncia contro ignoti

fondo vittime denuncia ignotiLa S.C. di Cassazione Sezione VI civile con sentenza 18097/2020 del 31.8.2020 ha osservato come “la vittima di un sinistro stradale causato da un veicolo non identificato non ha alcun obbligo, per ottenere il risarcimento da parte dell’impresa designata per conto del Fondo di garanzia vittime della strada, di presentare una denuncia od una querela contro ignoti, la cui sussistenza o meno non è che un mero indizio”, visto che l’accertamento da compiere non deve concernere il profilo della diligenza della vittima nel consentire l’individuazione del responsabile, ma esclusivamente la circostanza che il sinistro sia stato effettivamente provocato da un veicolo non identificato, sicché il giudice di merito potrà tener conto delle modalità con cui, fin dall’inizio, il sinistro è stato prospettato dalla vittima e del fatto che sia stata presentata una denuncia o una querela, ma ciò dovrà fare nell’ambito di una valutazione complessiva degli elementi raccolti e senza possibilità di stabilire alcun automatismo fra presentazione della denunzia o querela e accoglimento della pretesa, come pure fra mancata presentazione e rigetto della domanda”.
Non è possibile infatti ritenere indispensabile la denuncia del danneggiato (o la menzione della mancata identificazione del veicolo danneggiante, in occasione della redazione del referto sulle lesioni subite), giacché, diversamente si introdurrebbe “il principio della collaborazione del danneggiato con le autorità inquirenti (anche solo mediante la tempestiva denuncia) quale elemento necessario a integrare il requisito della «impossibilità incolpevole» della identificazione la cui mancanza comporterebbe il rigetto della pretesa”
Deve, quindi, censurarsi la previsione di ogni automatismo tra la mancata presentazione della denuncia e il rigetto della domanda, non potendo il giudice di merito verificare se l’attore abbia “fornito la prova che il veicolo investitore era rimasto sconosciuto, prescindendo del tutto dalle contenuto delle acquisite dichiarazioni testimoniali sulle modalità del sinistro e sul repentino allontanamento del veicolo investitore”.
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Intercettazioni: al via l’era dei trojan

smartphone trojanEntra in vigore il d.lgs. 216/2017, più volte rinviato, sulla riforma delle intercettazioni.
Le nuove norme si applicheranno ai procedimenti iscritti dopo il 31 agosto 2020.
La novità più rilevante è quella della legittimazione dei c.d. trojan horse, ossia l’inserimento di un captatore informatico su un dispositivo elettronico portatile. A tal fine possono essere impiegati solo programmi conformi ai requisiti tecnici stabiliti con decreto del Ministro della Giustizia. Il verbale delle operazioni deve indicare il tipo di programma impiegato e, se possibile, i luoghi in cui si svolgono le comunicazioni o conversazioni.
Le comunicazioni intercettate devono essere trasferite esclusivamente nell’archivio digitale, e durante il trasferimento dei dati deve essere garantito il controllo costante di integrità che assicuri l’integrale corrispondenza tra quanto intercettato, registrato e trasmesso.
Al termine delle operazioni il captatore deve essere disattivato con modalità tali da renderlo inidoneo a successivi utilizzi.
Il Pm deve dare indicazioni e vigilare affinché nei verbali non siano riportate espressioni lesive della reputazione delle persone o riguardanti dati sensibili, salvo che si tratti di intercettazioni rilevanti ai fini delle indagini.
Dopo il deposito delle intercettazioni, ai difensori dell’imputato deve essere immediatamente dato avviso che, entro il termine fissato dal Pm, per via telematica hanno facoltà di esaminare gli atti e ascoltare le registrazioni o di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche.
Questo è sicuramente il profilo attualmente più problematico in quanto le procure dovranno allestire un numero idoneo di postazioni di ascolto.
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Guida in stato di ebbrezza e casellario

casellario ebbrezzaLa Corte Costituzionale con sentenza 179/2020 ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 24  e dell’art. 25 del T.u. Casellario Giudiziale (DPR 14.11.2020 n. 313), nella parte in cui non prevedono, che nel certificato del casellario giudiziale richiesto dall’interessato non siano riportate le iscrizioni della sentenza di condanna per uno dei reati di cui all’art. 186 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) che sia stato dichiarato estinto in seguito al positivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, nonché dell’ordinanza che dichiara l’estinzione del reato medesimo ai sensi dell’art. 186, comma 9-bis, cod. strada.

In particolare la Consulta, richiamando quanto già affermato nella propria sentenza 231/2018 nella quale aveva censurato l’omessa previsione della non menzione dei provvedimenti relativi alla messa alla prova nei certificati del casellario richiesti da privati, ha osservato che il lavoro di pubblica utilità, disposto quale sanzione sostitutiva per la contravvenzione di cui all’art. 186 cod. strada, alla stessa stregua della messa alla prova, implica lo svolgimento di un’attività in favore della collettività, e pertanto, in caso di esito positivo della stessa, esprime una meritevolezza maggiore rispetto a quella manifestata da chi patteggi la pena o non si opponga all’emissione di un decreto di condanna nei suoi confronti, beneficiando per ciò stesso della non menzione nei certificati del casellario richiesti dai privati.

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