Inammissibile il concordato che fa attendere a lungo i creditori ipotecari

concordato inammissibileE’ inammissibile la proposta di concordato preventivo in continuità che preveda il pagamento dei creditori ipotecari solo dopo un periodo di tempo irragionevole (6 anni) e non già subito dopo la vendita degli immobili gravati dalle ipoteche, in quanto tale proposta risulta incompatibile con il sistema dei privilegi, per violazione della clausola di salvaguardia dettata dall’art. 186 bis, secondo comma, lettera c) L..F..
Infatti, “in materia di concordato preventivo, la regola generale è quella del pagamento non dilazionato dei creditori privilegiati, sicché l’adempimento con una tempistica superiore a quella imposta dai tempi tecnici della procedura (e della liquidazione, in caso di concordato cosiddetto “liquidativo”) equivale a soddisfazione non integrale degli stessi in ragione della perdita economica conseguente al ritardo, rispetto ai tempi “normali”, con il quale i creditori conseguono la disponibilità delle somme ad essi spettanti”.
Lo ha dichiarato la S.C. di Cassazione, Sez. VI civile, del 4 febbraio 2020, n. 2422 (scarica qui il testo integrale).

Abbandono del figlio: danni risarcibili

abbandono padre figlioNon adempiere sistematicamente e ripetutamente ai propri obblighi di genitore tramite protratto abbandono e disinteresse nei confronti dei figli, rifiutando contatti con gli stessi, è un illecito a effetti permanenti che produce anche un danno non patrimoniale lato sensu psicologico-esistenziale, ovvero che investe direttamente la progressiva formazione della personalità del danneggiato, condizionando così pure lo sviluppo delle sue capacità di comprensione e di autodifesa.
La Sezione III Civile della S.C. di Cassazione con ordinanza 11097/2020 del 10.6.2020 ha affermato anzitutto che il genus danno endofamiliare, allora, deve anzitutto essere ripartito in due species, cioè:
a) il danno relativo al rapporto di coniugio/unione e
b) il danno relativo al rapporto genitoriale.
Da un altro punto di vista, poi, emerge l’ulteriore distinzione:
1) del danno endofamiliare derivante da condotta permanente,
2) dal danno endofamiliare derivante da condotta istantanea.
Già Cass. sez. 1, 10 aprile 2012 n. 5652 aveva affermato che “La violazione dei doveri di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole (nella specie il disinteresse mostrato dal padre nei confronti del figlio per lunghi anni) non trova sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, potendo integrare gli estremi dell’illecito civile, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti; questa, pertanto, può dar luogo ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 cod. civ, esercitabile anche nell’ambito dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità” (v. anche Cass. sez. 6-3, 16 febbraio 2015 n. 3079 – “Il disinteresse mostrato da un genitore nei confronti di una figlia naturale integra la violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione della prole, e determina la lesione dei diritti nascenti da un rapporto di filiazione che trovano negli articoli 2 e 30 della Costituzione – oltre che nelle norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento – un elevato grado di riconoscimento di tutela, sicché tale condotta è suscettibile di integrare gli estremi dell’illecito civile e legittima l’esercizio, ai sensi dell’art. 2059 c.c., di un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti dalla prole”).
Tale nozione di illecito endofamiliare, in virtù della quale la violazione dei relativi doveri non trova necessariamente sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, discendendo dalla natura giuridica degli obblighi suddetti che la relativa violazione, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, può integrare gli estremi dell’illecito civile e dare luogo ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ex articolo 2059 c.c., di cui deve effettuarsi – ovviamente sulla base della celebre ricostruzione di S.U. 11 novembre 2008 n. 26972 – un’interpretazione costituzionalmente orientata che consente la risarcibilità del pregiudizio di natura non patrimoniale, quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale.
Ed è indubbio come il disinteresse dimostrato da un genitore nei confronti di un figlio, manifestatosi per lunghi anni e connotato, quindi, dalla violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione, determini un vulnus, dalle conseguenze di entità rimarchevole ed anche, purtroppo, ineliminabili, a quei diritti che, scaturendo dal rapporto di filiazione, trovano nella carta costituzionale (in part., artt. 2 e 30) e nelle norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento un elevato grado di riconoscimento e di tutela.
In tale situazione l’eventuale ritardo dell’azione giudiziale da parte del figlio rispetto al momento in cui sia divenuto maggiorenne non può costituire in alcun modo concorso di colpa o contributo nell’aggravamento del danno.
Infatti, ciò che viene a essere leso è il diritto alla relazione filiale da cui discende “il nucleo costitutivo originario dell’identità personale e relazionale dell’individuo”, e il danno consiste “nelle ripercussioni personali e sociali derivanti dalla consapevolezza di non essere mai stati desiderati ed accolti come figli”.
Pertanto la persona che subisce la violazione di tale diritto entra in una “condizione di sofferenza personale e morale” che imprime “un tracciato di disagio di sofferenza nello sviluppo psicofisico”, per cui, in ultima analisi (e a prescindere, ovviamente, dalla questione della legittimazione ad agire dell’altro genitore quando il danneggiato è minorenne), “la natura del diritto azionato ne rende del tutto giustificabile, in mancanza di limitazioni legali, l’esercizio in una fase di maturità personale compatibile con il coinvolgimento personale ed emotivo ad esso connesso”.
E dunque va escluso il concorso colposo nella produzione del danno in ipotesi di inerzia dei figli in ordine al momento da essi prescelto per l’iniziativa giudiziale, in quanto liberamente e legittimamente determinabile da parte dei titolari del diritto, oltre che del tutto ininfluente rispetto alla configurazione e determinazione del danno non patrimoniale riconosciuto.
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Videoriprese in ambito condominiale

video condominio stalkingE’ legittimo riprendere con videoregistrazioni un vicino di casa, soprattutto se ciò avvenga per dimostrare che lo stesso commette atti persecutori ai danni di altro condomino.
Lo ha deciso la S.C. di Cassazione, Sezione V penale con sentenza 17346 dell’8.6.2020, nell’ambito di una fattispecie in cui gli imputati erano chiamati a rispondere della contestazione di atti persecutori ai danni della persona offesa, per aver compiuto varie azioni intimidatorie, occupando un’area comune con il loro camper, nonché con ingiurie e minacce gravi, anche di morte, e un tentativo di investimento; le condotte si sono protratte per circa 2 anni ed è stato accertato dai giudici di merito che esse hanno arrecato un grave stato di ansia e paura alla vittima, nonché un fondato timore per la propria incolumità.
La condizione che abilita la videoregistrazione è che la stessa avvenga in luogo pubblico o aperto al pubblico.
La Corte ha infatti sottolineato come già le Sezioni Unite con la pronuncia Sez. U, n. 26795 del 28/3/2006, Prisco, Rv. 234267, abbiano già affermato che le videoregistrazioni in luoghi pubblici ovvero aperti o esposti al pubblico, non effettuate nell’ambito del procedimento penale, vanno incluse nella categoria dei “documenti” di cui all’art. 234 cod. proc. pen., mentre, se eseguite dalla polizia giudiziaria, anche d’iniziativa, vanno incluse nella categoria delle prove atipiche, soggette alla disciplina dettata dall’art. 189 cod. proc. pen. e, trattandosi della documentazione di attività investigativa non ripetibile, possono essere allegate al relativo verbale e inserite nel fascicolo per il dibattimento.
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Affido provvisorio del cane maltrattato

affido cane maltrattatoLa Legge n. 189 del 2004, ha introdotto quattro nuove fattispecie delittuose (art. 544 bis, 544 ter, 544 quater e 545 quinquies c.p.), sotto il nuovo titolo dedicato ai “delitti contro il sentimento per gli animali”) del libro secondo del codice penale, modificando altresì il testo dell’art. 727 c.p., ora rubricato “abbandono di animali”, inserendo inoltre una nuova previsione, l’art. 544 sexies c.p., secondo cui, in caso di condanna o di applicazione di pena concordata per i delitti previsti dall’art. 544 ter (maltrattamento di animali), art. 544 quater (organizzazione di spettacoli che comportino sevizie o strazio per gli animali) e art. 545 quinquies (promozione di combattimenti tra animali che ne mettano in pericolo l’integrità fisica), è prevista la confisca obbligatoria dell’animale, salvo che appartenga a persona estranea al reato, non essendo tale previsione operante per l’art. 544 ter c.p., che sanziona il delitto di uccisione di animale, nell’ovvio presupposto che in tal caso che non vi siano animali sopravvissuti da tutelare.
Parallelamente, sono state introdotte due nuove disposizioni di coordinamento del codice penale, ovvero gli artt. 19 ter e 19 quater, il secondo dei quali, rubricato “affidamento degli animali sequestrati o confiscati”, nell’ottica di approntare una più efficace protezione ai destinatari delle condotte illecite, prevede espressamente che gli animali oggetto di provvedimenti di sequestro o di confisca sono affidati ad associazioni o enti che ne facciano richiesta, individuati con decreto del Ministro della salute, adottato di concerto con il Ministro dell’interno.
La detenzione di animali nelle condizioni previste dal comma 2 dell’art. 544 sexies c.p. (“condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze”), costituendo reato, sia pure contravvenzionale, rientra comunque nell’ipotesi di confisca obbligatoria ex art. 240 c.p., comma 2, n. 2, in forza del quale deve sempre essere ordinata la confisca delle cose, la detenzione delle quali costituisca reato, a meno che esse non appartengano a persone estranee al reato.
In questo quadro di riferimento la S.C. ha preso in esame la questione se, operato il sequestro degli animali che si assumono maltrattati o comunque destinatari di una delle altre condotte illecite penalmente sanzionate, sia possibile disporne l’affidamento ai privati prima della definizione del procedimento penale.
Tale quesito ha già ricevuto risposta positiva dalla giurisprudenza di legittimità, essendo stato precisato (Sez. 3, n. 22039 del 21/04/2010, Rv. 247656) che l’affidamento provvisorio a privati degli animali oggetto di sequestro, effettuato nel corso del processo in attesa di individuare gli enti e associazioni che si dichiarino disponibili ad accoglierli, non contrasta con la previsione di cui all’art. 19 quater disp. att. c.p., che non pone affatto limitazioni al riguardo.
La S.C. di Cassazione, sezione III penale, con sentenza 16480 del 29.5.2020 ha affermato che prima che l’accertamento sulla responsabilità degli imputati non diventi irrevocabile, è consentito l’affidamento provvisorio ma non quello definitivo, in quanto disporre definitivamente dell’animale di un imputato, in assenza di una eventuale statuizione di confisca, non può considerarsi operazione legittima, alla luce della presunzione di non colpevolezza prevista dall’art. 27 Cost., comma 3.
L’esigenza di assicurare agli animali sequestrati un’adeguata protezione mediante l’affidamento temporaneo a soggetti privati pronti a prestare loro accoglienza, non può essere estesa fino al punto di sacrificare il principio per cui, fino all’accertamento irrevocabile della responsabilità penale dell’imputato, non può procedersi all’ablazione definitiva di quanto nella sua disponibilità. Deve pertanto ritenersi legittima la decisione di consentire affidamenti soltanto provvisori degli animali di proprietà dell’indagato/imputato, non risultando decisiva l’obiezione secondo cui, in caso di restituzione dell’animale all’avente diritto ove questi sia assolto, verrebbe spezzato il legame affettivo instauratosi tra l’animale e il nuovo detentore.
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Furto del bancomat: il correntista perde solo 150 euro salvo che non versi in colpa grave

furto bancomatIn una controversia relativa alla richiesta di rimborso, da parte di un correntista, di quanto illecitamente prelevato tramite tessera bancomat sottratta da terzi, la S.C. di Cassazione (v. ordinanza 9721 del 26.5.2020), ha affermato che in tema di responsabilità della banca in caso di operazioni effettuate a mezzo di strumenti elettronici, anche al fine di garantire la fiducia degli utenti nella sicurezza del sistema (il che rappresenta interesse degli stessi operatori), è del tutto ragionevole ricondurre nell’area del rischio professionale del prestatore dei servizi di pagamento, prevedibile ed evitabile con appropriate misure destinate a verificare la riconducibilità delle operazioni alla volontà del cliente, la possibilità di una utilizzazione dei codici di accesso al sistema da parte dei terzi, non attribuibile al dolo del titolare o a comportamenti talmente incauti da non poter essere fronteggiati in anticipo. Ne consegue che, anche prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 11 del 2010, attuativo della direttiva n. 2007/64/CE relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno, la banca, cui è richiesta una diligenza di natura tecnica, da valutarsi con il parametro dell’accorto banchiere, è tenuta a fornire la prova della riconducibilità dell’operazione al cliente (Cass. N. 2950 / 2017).
Questa regola, dettata per i casi anteriori, è stata confermata dal D.Lgs. n. 11 del 2010, secondo cui l’onere di dimostrare che l’operazione, posta in essere illecitamente dal terzo, è stata comunque effettuata correttamente e che non v’è stata anomalia che abbia consentito la fraudolenta operazione, grava, per l’appunto sulla banca (D. lgs. n. 11 del 2010, art. 10, comma 1).
Infine, postulando pur sempre la natura contrattuale del rapporto tra banca e correntista e dunque un certo rilievo dell’art. 1176 c.c. in tema di diligenza delle parti del rapporto di conto, si è osservato che la responsabilità della banca per operazioni effettuate a mezzo di strumenti elettronici, con particolare riguardo alla verifica della loro riconducibilità alla volontà del cliente mediante il controllo dell’utilizzazione illecita dei relativi codici da parte di terzi, ha natura contrattuale e, quindi, va esclusa se ricorre una situazione di colpa grave dell’utente, configurabile nel caso di protratta mancata attivazione di una qualsiasi forma di controllo degli estratti conto (Cass. N. 18045/ 2019).
In sostanza, da un lato, grava sulla banca l’onere di diligenza di impedire prelievi abusivi, per altro verso grava sempre sulla banca l’onere di dimostrare che il prelievo non è opera di terzi, ma è riconducibile comunque alla volontà del cliente. Infine, quest’ultimo subisce le conseguenze della perdita se, per colpa grave, ha dato adito o ha aggravato il prelievo illegittimo.
Sulla base di tali principi la S.C. ha dichiarato illegittimo far gravare l’onere della prova sui correntisti, incaricando questi ultimi di dimostrare di non aver ceduto ad alcuno la tessera o il PIN e di avere diligentemente custodito la carta, senza considerare che, in ragione delle norme citate, è onere non dei correntisti, ma della Banca, dimostrare la riconducibilità dell’operazione al cliente e non al terzo.
In tal modo si violerebbe il dato legislativo, facendo invece prevalere il significato proprio delle condizioni generali di contratto, che pone a carico del correntista, qualora ovviamente emerga l’uso indebito da parte del terzo, solo la somma di 150 Euro di quanto indebitamente prelevato prima della denuncia di blocco (art. 12, comma 3 del d.lgs 11/2010 citato).
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