La S.C. di Cassazione con sentenza 18313 del 16.6.2020 ha precisato i contorni della regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio (regola b.a.r.d., acronimo dell’inglese “beyond any reasonable doubt” introdotto nel nostro ordinamento con la c.d. riforma del giusto processo (legge n. 46 del 2006), orientata a rafforzare la struttura accusatoria del rito anche attraverso l’importazione di alcuni elementi del processo anglossassone e, segnatamente di quello nordamericano.
Nel processo statunitense la esortazione a giudicare “oltre ogni ragionevole dubbio” fa, infatti, parte delle instructions che il giudice deve impartire alla giuria, che decide con verdetto immotivato: si tratta pertanto di una raccomandazione che, in quell’ordinamento non ha alcun controllabile precipitato nella motivazione.
Dopo l’importazione della formula nel tessuto codicistico italiano la dottrina prevalente ha collegato il criterio alla presunzione di non colpevolezza contenuta nell’art. 27 comma 2 della Carta fondamentale, trovando autorevole conferma nella giurisprudenza delle Sezioni unite (Cass. Sez. Unite n. 18620 del 19/01/2017 – dep. 14/04/2017, Patalano, Rv. 269786; Cass. Sez. Unite, n. 14800 del 21/12/2017 – dep. 03/04/2018, P.G. in proc. Troise, Rv. 272430).
La dottrina ha ritenuto altresì che il criterio valutativo in questione segni il superamento del principio del principio del “libero convincimento del giudice” e, quindi, della necessità che la condanna sia fondata sulla valorizzazione delle prove assunte in contraddittorio le quali, per rispettare il canone valutativo, devono avere una capacità dimostrativa sufficiente a neutralizzare la valenza antagonista delle tesi alternative.
Condividendo tale apprezzabile tentativo di positivizzazione della formula b.a.r.d. la S.C. ha chiarito però che il criterio in questione non possa tradursi nella valorizzazione di uno “stato psicologico” del giudicante, invero soggettivo ed imperscrutabile, ma sia indicativo della necessità che il giudice effettui un serrato confronto con gli elementi emersi nel corso della progressione processuale e, nei casi in cui decida su un’impugnazione a struttura devolutiva, anche con gli argomenti di critica proposti dall’appellante oltre che con le ragioni poste a sostegno della prima decisione.
La Corte afferma altresì che il mancato rispetto di tale regola di valutazione (come anche di quella indicata nell’art. 192 cod. proc. pen) non può essere tradotto nella invocazione di una diversa valutazione delle fonti di prova, ovvero di un’attività di valutazione del merito della responsabilità esclusa dal perimetro della giurisdizione di legittimità. La violazione di tale regola può invece essere invocata solo ove precipiti in una illogicità manifesta e decisiva del tessuto motivazionale, dato che oggetto del giudizio di cassazione non è la valutazione (di merito) delle prove, ma la tenuta logica della sentenza di condanna.
Non ogni “dubbio” sulla ricostruzione probatoria fatta propria dalla Corte di merito si traduce infatti in una “illogicità manifesta”, essendo necessario che sia rilevato un vizio che incrini, in modo severo, la tenuta della motivazione, evidenziando una frattura logica non solo “manifesta”, ma anche “decisiva”, in quanto essenziale per la tenuta del ragionamento giustificativo della condanna.
La S.C. ha ritenuto cioè che il parametro di valutazione indicato nell’art. 533 cod. proc. pen. che richiede che la condanna sia pronunciata se è fugato ogni “dubbio ragionevole” opera in modo diverso nella fase di merito e in quella di legittimità: solo innanzi alla giurisdizione di merito tale parametro può essere invocato per ottenere una valutazione alternativa delle prove sulla base delle allegazioni difensive; diversamente in sede di legittimità tale regola rileva solo nella misura in cui la sua inosservanza si traduca in una manifesta illogicità del tessuto motivazionale. Infatti può essere sottoposta al giudizio di cassazione solo la tenuta logica della motivazione, ma non la capacità dimostrativa delle prove, ove le stesse siano state legittimamente assunte; l’apprezzamento della capacità dimostrativa delle singole prove, come anche dei complessi indiziari è attività tipica ed esclusiva della giurisdizione di merito e non può essere in alcun modo devoluta alla giurisdizione di legittimità se non nei limitati casi in cui si deduca, e si alleghi, un travisamento. Diversamente, in sede di legittimità la violazione delle regole di valutazione delle prove e, segnatamente, del criterio indicato dall’art. 533 cod. proc. pen. è invocabile solo quando precipiti in una illogicità manifesta del percorso argomentativo.
In sintesi: la “regola b.a.r.d.” (acronimo anglosassone: “beyond any reasonable doubt”) in sede di legittimità rileva solo se la sua violazione “precipita” in una illogicità manifesta e decisiva del tessuto motivazionale, l’unico ad essere sottoposto al vaglio di un organo giurisdizionale che non ha alcun potere di valutazione autonoma delle fonti di prova. La nuova o diversa valutazione delle prove può, invece, essere invocata nei gradi di merito, quando il rispetto del criterio dell'”oltre ogni ragionevole dubbio” non incontra il limite funzionale che caratterizza il giudizio di cassazione (Cass. Sez. 2, n. 28957 del 03/04/2017 – dep. 09/06/2017, D’Urso e altri, Rv. 270108).
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Autore: Studio Legale
Fallimento e appalto di opera pubblica
La Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili, con sentenza 02 marzo 2020, n. 5685 ha dichiarato che l’art. 118, comma 3 del D.Lgs. n. 163 del 2006 (il precedente codice appalti oggi sostituito dal Decreto Legislativo 18 aprile 2016, n. 50) che consentiva alla stazione appaltante di sospendere i pagamenti in favore dell’appaltatore, in attesa delle fatture dei pagamenti effettuati da quest’ultimo al subappaltatore doveva ritenersi riferito solo agli appalti in corso con impresa in bonis.
Al contrario, in caso di fallimento dell’appaltatore di opera pubblica, il contratto di appalto si scioglie con la conseguenza che il Curatore, per conto della massa concorsuale può chiedere alla stazione appaltante il corrispettivo delle prestazioni eseguite fino all’intervenuto scioglimento del contratto.
Il subappaltatore invece deve essere considerato un creditore concorsuale dell’appaltatore come gli altri, da soddisfare nel rispetto della par condicio creditorum e dell’ordine delle cause di prelazione
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Assolto il ginecologo se il feto sarebbe morto comunque
Assolto per non aver commesso il fatto un ginecologo imputato per avere concorso a cagionare (unitamente ad altro collega separatamente giudicato) il decesso del feto che una paziente alla 31+3 settimana di gravidanza con sintomi di preeclampsia, portava in grembo. Ciò a seguito di una disamina non corretta del quadro complessivo della gestante, che – se correttamente valutato – avrebbe dovuto indurre a considerare un rapido espletamento del parto, stante l’insussistenza delle condizioni per attendere oltre (ossia in presenza di rilevante stato anemico, riduzione del flusso nelle arterie uterine, ritardo di crescita fetale nelle ultime due settimane di gestazione, segno di una ridotta funzione placentare, calo delle piastrine, elevati valori pressori); inoltre non veniva eseguito un adeguato monitoraggio ed apporto terapeutico per la stabilizzazione delle condizioni della paziente, atteso che dopo due giorni dal ricovero, permanendo elevati i valori pressori, non eseguivano un nuovo esame di flussimetria Doppler; e successivamente, pur a fronte di elementi deponenti per una possibile evoluzione in forma grave della preeclampsia e per una possibile insorgenza di sindrome di Hellp, i due sanitari non adottavano le necessarie misure terapeutiche e di controllo per salvaguardare la salute della madre e del feto. L’accusa era dunque avere omesso, nell’arco temporale di sua competenza (dalle 08,00 del mattino del 3 settembre 2009), qualsiasi intervento, così portando la paziente in pericolo di vita e il feto in asfissia; di tal che l’intervento chirurgico da lui compiuto alle 10,07 risultava tardivo, in quanto il feto era già morto.
La S.C. di Cassazione, sezione IV penale, con sentenza 8864/2020 ha cassato senza rinvio la sentenza di secondo grado non reputando raggiunta la prova della rilevanza causale della condotta addebitata al ginecologo rispetto all’evento infausto.
Nei reati omissivi impropri, la valutazione concernente la riferibilità causale dell’evento lesivo alla condotta omissiva che si attendeva dal soggetto agente, deve avvenire rispetto alla sequenza fenomenologica descritta nel capo d’imputazione, di talché, nelle ipotesi di omicidio o lesioni colpose in campo medico, il ragionamento controfattuale deve essere svolto dal giudice di merito in riferimento alla specifica attività (diagnostica, terapeutica, di vigilanza e salvaguardia dei parametri vitali del paziente o altro) che era specificamente richiesta al sanitario e che si assume idonea, se realizzata, a scongiurare l’evento lesivo, come in concreto verificatosi, con alto grado di credibilità razionale (Sez. 4, n. 30469 del 13/06/2014, Jann e altri, Rv. 262239). Analogamente, in un caso per molti versi analogo a quello che ne occupa, si é affermato – in modo altrettanto pertinente rispetto al caso di specie – che, in tema di nesso di causalità, il giudizio controfattuale – imponendo di accertare se la condotta doverosa omessa, qualora eseguita, avrebbe potuto evitare l’evento – richiede preliminarmente l’accertamento di ciò che é accaduto (c.d. giudizio esplicativo) per il quale la certezza processuale deve essere raggiunta (Sez. 4, Sentenza n. 23339 del 31/01/2013, Giusti, Rv. 256941: in applicazione del principio di cui in massima la S.C. ha censurato la decisione del giudice di appello che ha affermato la responsabilità di un medico – per avere, sulla base di un’errata interpretazione del tracciato cardiografico del feto, ritardato il parto con taglio cesareo, causandone il decesso – ritenendo non provato il momento di insorgenza della sofferenza fetale e, quindi, la circostanza che il feto potesse essere salvato nel momento in cui gli esami vennero sottoposti all’attenzione del medico, se quest’ultimo fosse tempestivamente intervenuto).
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Trattazione congiunta dei procedimenti prefallimentari
La Prima Sezione civile della S.C. di Cassazione con sentenza 4343/2020 ha sottolineato la necessità di trattazione congiunta dei procedimenti prefallimentari o volti alla soluzione negoziale della crisi di impresa, sancendo che:
i) «La domanda di concordato preventivo ed il procedimento prefallimentare debbono essere coordinati in modo da garantire che la soluzione negoziale della crisi, ove percorribile, sia preferita al fallimento. Pertanto, ove siano contemporaneamente pendenti dinanzi ad uno stesso ufficio giudiziario, gli stessi possono essere riuniti ex art. 273 c.p.c., anche di ufficio, consentendo una siffatta riunione di raggiungere l’obiettivo della gestione coordinata»;
ii) «Ove la domanda di concordato preventivo ed il procedimento prefallimentare siano pendenti dinanzi ad uffici giudiziari diversi, ferma la regola della continenza ex art. 39, comma 2, c.p.c., è onere del debitore che conosce della pendenza dell’istruttoria prefallimentare, anteriormente introdotta, proporre la domanda di concordato preventivo dinanzi al tribunale investito dell’istanza di fallimento, anche quando lo ritenga incompetente, affinché i due procedimenti confluiscano dinanzi al medesimo tribunale, e senza che una siffatta condotta determini acquiescenza ad una eventuale violazione dell’art. 9 l.fall..»;
iii) «Allorquando l’istanza di fallimento sia stata depositata dinanzi ad un ufficio giudiziario diverso da quello innanzi al quale sia già pendente una domanda di concordato preventivo, l’obiettivo della gestione coordinata dei due procedimenti può essere conseguito sollecitando il tribunale successivamente adito all’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 39, comma 2, l.fall., che in ogni caso, in ossequio ai principi generali, e vieppiù nell’ottica di garantire preferibilmente la soluzione negoziale della crisi, debbono essere adottati anche di ufficio»;
iv) «Ove la domanda di concordato preventivo ed il procedimento prefallimentare siano pendenti dinanzi ad uffici giudiziari diversi, è onere del debitore impugnare, nei limiti in cui ciò sia consentito, tutti i provvedimenti adottati, anche in rito, che possano ostacolare il preliminare esame della domanda di concordato preventivo da lui proposta, atteso che l’eventuale accoglimento del reclamo ex art. 18 l.fall. contro la sentenza di fallimento, di cui si pretenda l’illegittimità a causa del mancato preventivo esame della domanda concordataria, presuppone che quest’ultima sia ancora sub iudice».
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Nei primi sei mesi spetta al venditore provare la conformità dell’auto
La S.C. di Cassazione, Sezione II civile, con sentenza n. 13148 del 30.6.2020, pronunciata in un caso di vendita di una automobile, ha dichiarato che si presume che i difetti di conformità, che si manifestino entro sei mesi dalla consegna del bene, siano sussistenti già a tale data, sicché è onere del consumatore allegare la sussistenza del vizio, gravando sulla controparte l’onere di provare la conformità del bene consegnato rispetto al contratto di vendita. Superato il suddetto termine, trova nuovamente applicazione la disciplina generale posta in materia di onere della prova posta dall’art. 2697 c. c.
Entro sei mesi dalla vendita grava, quindi, sul consumatore il solo onere di denunciare il difetto di conformità, che è da considerarsi assolto nel momento in cui egli comunichi tempestivamente al venditore l’esistenza del difetto di conformità, non occorrendo che venga altresì fornita la prova di tale difetto, né che venga indicata la causa precisa di tale difetto.
Infatti, risulterebbe troppo oneroso per il consumatore, in fase di presentazione della denuncia di non conformità del prodotto, assolvere l’onere probatorio mediante l’allegazione del vizio specifico da cui è affetto il prodotto, ciò che richiederebbe l’accesso a dati tecnici del prodotto nonché un’assistenza tecnica specializzata, che invece si trovano nella più agevole disponibilità del venditore ( e che a questi non sarebbe eccessivamente oneroso chiedere di apprestare in occasione della diagnosi della natura del difetto di conformità denunciato).
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