La S.C. di Cassazione Sezione VI civile con sentenza 18097/2020 del 31.8.2020 ha osservato come “la vittima di un sinistro stradale causato da un veicolo non identificato non ha alcun obbligo, per ottenere il risarcimento da parte dell’impresa designata per conto del Fondo di garanzia vittime della strada, di presentare una denuncia od una querela contro ignoti, la cui sussistenza o meno non è che un mero indizio”, visto che l’accertamento da compiere non deve concernere il profilo della diligenza della vittima nel consentire l’individuazione del responsabile, ma esclusivamente la circostanza che il sinistro sia stato effettivamente provocato da un veicolo non identificato, sicché il giudice di merito potrà tener conto delle modalità con cui, fin dall’inizio, il sinistro è stato prospettato dalla vittima e del fatto che sia stata presentata una denuncia o una querela, ma ciò dovrà fare nell’ambito di una valutazione complessiva degli elementi raccolti e senza possibilità di stabilire alcun automatismo fra presentazione della denunzia o querela e accoglimento della pretesa, come pure fra mancata presentazione e rigetto della domanda”.
Non è possibile infatti ritenere indispensabile la denuncia del danneggiato (o la menzione della mancata identificazione del veicolo danneggiante, in occasione della redazione del referto sulle lesioni subite), giacché, diversamente si introdurrebbe “il principio della collaborazione del danneggiato con le autorità inquirenti (anche solo mediante la tempestiva denuncia) quale elemento necessario a integrare il requisito della «impossibilità incolpevole» della identificazione la cui mancanza comporterebbe il rigetto della pretesa”
Deve, quindi, censurarsi la previsione di ogni automatismo tra la mancata presentazione della denuncia e il rigetto della domanda, non potendo il giudice di merito verificare se l’attore abbia “fornito la prova che il veicolo investitore era rimasto sconosciuto, prescindendo del tutto dalle contenuto delle acquisite dichiarazioni testimoniali sulle modalità del sinistro e sul repentino allontanamento del veicolo investitore”.
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Autore: Studio Legale
Intercettazioni: al via l’era dei trojan
Entra in vigore il d.lgs. 216/2017, più volte rinviato, sulla riforma delle intercettazioni.
Le nuove norme si applicheranno ai procedimenti iscritti dopo il 31 agosto 2020.
La novità più rilevante è quella della legittimazione dei c.d. trojan horse, ossia l’inserimento di un captatore informatico su un dispositivo elettronico portatile. A tal fine possono essere impiegati solo programmi conformi ai requisiti tecnici stabiliti con decreto del Ministro della Giustizia. Il verbale delle operazioni deve indicare il tipo di programma impiegato e, se possibile, i luoghi in cui si svolgono le comunicazioni o conversazioni.
Le comunicazioni intercettate devono essere trasferite esclusivamente nell’archivio digitale, e durante il trasferimento dei dati deve essere garantito il controllo costante di integrità che assicuri l’integrale corrispondenza tra quanto intercettato, registrato e trasmesso.
Al termine delle operazioni il captatore deve essere disattivato con modalità tali da renderlo inidoneo a successivi utilizzi.
Il Pm deve dare indicazioni e vigilare affinché nei verbali non siano riportate espressioni lesive della reputazione delle persone o riguardanti dati sensibili, salvo che si tratti di intercettazioni rilevanti ai fini delle indagini.
Dopo il deposito delle intercettazioni, ai difensori dell’imputato deve essere immediatamente dato avviso che, entro il termine fissato dal Pm, per via telematica hanno facoltà di esaminare gli atti e ascoltare le registrazioni o di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche.
Questo è sicuramente il profilo attualmente più problematico in quanto le procure dovranno allestire un numero idoneo di postazioni di ascolto.
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Guida in stato di ebbrezza e casellario
La Corte Costituzionale con sentenza 179/2020 ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 24 e dell’art. 25 del T.u. Casellario Giudiziale (DPR 14.11.2020 n. 313), nella parte in cui non prevedono, che nel certificato del casellario giudiziale richiesto dall’interessato non siano riportate le iscrizioni della sentenza di condanna per uno dei reati di cui all’art. 186 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) che sia stato dichiarato estinto in seguito al positivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, nonché dell’ordinanza che dichiara l’estinzione del reato medesimo ai sensi dell’art. 186, comma 9-bis, cod. strada.
In particolare la Consulta, richiamando quanto già affermato nella propria sentenza 231/2018 nella quale aveva censurato l’omessa previsione della non menzione dei provvedimenti relativi alla messa alla prova nei certificati del casellario richiesti da privati, ha osservato che il lavoro di pubblica utilità, disposto quale sanzione sostitutiva per la contravvenzione di cui all’art. 186 cod. strada, alla stessa stregua della messa alla prova, implica lo svolgimento di un’attività in favore della collettività, e pertanto, in caso di esito positivo della stessa, esprime una meritevolezza maggiore rispetto a quella manifestata da chi patteggi la pena o non si opponga all’emissione di un decreto di condanna nei suoi confronti, beneficiando per ciò stesso della non menzione nei certificati del casellario richiesti dai privati.
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Consenso informato e violazione dell’autodeterminazione
Il diritto al risarcimento del danno per omissione del consenso informato può sorgere anche nel caso in cui il paziente non possa dimostrare la responsabilità del medico in relazione a un eventuale pregiudizio alla salute subito in conseguenza dell’intervento.
Ciò perché anche la lesione del diritto alla autodeterminazione può costituire responsabilità medica.
Pur tuttavia, come afferma la S.C. di Cassazione con sentenza 17322/2020 del 19.8.2020 infatti, nell’ipotesi dell’omessa informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un pregiudizio alla salute ma senza che sia stata dimostrata la responsabilità del medico, è risarcibile il diritto violato all’autodeterminazione a condizione che il paziente alleghi e provi che, una volta in possesso dell’informazione, avrebbe prestato il rifiuto all’intervento (e, nel caso di specie, si sarebbe rivolto ad altra struttura).
Il rifiuto del consenso alla pratica terapeutica rileva, come aveva già affermato anche Cass. n. 28985 del 2019, sul piano della causalità giuridica ex art. 1223 c.c. e cioè della relazione tra evento lesivo del diritto alla autodeterminazione – perfezionatosi con la condotta omissiva violativa dell’obbligo informativo preventivo – e conseguenze pregiudizievoli che da quello derivano secondo un nesso di regolarità causale.
Laddove il paziente non provi (o addirittura nemmeno deduca) che non si sarebbe sottoposto all’intervento e che si sarebbe rivolto ad altra struttura, si versa nel caso di una mera eventualità di un intervento presso altra struttura.
Tale eventualità non è idonea ad integrare il requisito richiesto del rifiuto che si sarebbe frapposto all’intervento una volta in possesso dell’informazione omessa, rifiuto che è onere del paziente non solo allegare, ma anche provare (con ogni mezzo, come afferma la giurisprudenza, e dunque anche il notorio, le massime di esperienza e le presunzioni).
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La preponderanza dell’evidenza
Con ordinanza del 6 luglio 2020, n. 13872 la S.C. di Cassazione, sezione III civile precisa in modo dettagliato i criteri di ripartizione dell’onere probatorio in tema di responsabilità medica.
In particolare descrive la regula iuris della “preponderanza dell’evidenza” e la suddivide in due criteri:
1. quello del “più probabile che non”, in base alla quale il giudice deve scegliere l’ipotesi che, sulla base delle prove allegate, è dotata di un “grado di conferma logica superiore all’altra”;
2. quello della “prevalenza relativa”, secondo cui il giudice deve scegliere come “vero” l’enunciato che ha ricevuto il grado relativamente maggiore di conferma sulla base delle prove disponibili.
Sulla base di tali principi la S.C. giunge ad affermare nel caso trattato che il Giudice deve “verificare, sulla scorta delle evidenze probatorie acquisite (anche a mezzo della disposta di consulenza tecnica d’ufficio), innanzitutto, se l’ipotesi sulla verità dell’enunciato relativo all’idoneità della toracentesi a cagionare l’emotorace presentasse un grado di conferma logica maggiore rispetto a quella della sua falsità (criterio del “più probabile che non”). Di seguito, essa avrebbe dovuto stabilire – in applicazione, questa volta, del criterio della “prevalenza relativa della probabilità” se tale ipotesi avesse ricevuto, sempre su un piano logico, ovvero nuovamente sulla base delle prove disponibili, un grado relativamente maggiore di conferma rispetto ad altrettante, differenti, ipotesi sulla eziologia tanto dell’emotorace, quanto del decesso della paziente (facendo la sentenza riferimento a non meglio precisate sue “critiche condizioni di salute” che avrebbero influito sul cd. “exitus”), ipotesi anch’esse, però, da riscontrare preliminarmente, nella loro verità, nello stesso modo, ovvero in applicazione del principio del più probabile che non”.
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